Da giorni i grandi media ingrossano le righe del plotone d’esecuzione schierati contro Claudio Durigon, sottosegretario all’Economia, leghista. L’Ansa ha rilanciato in inglese gli appelli politici alle dimissioni: sollecitate su Repubblica da un editorialista di punta. Il Fatto Quotidiano ha promosso una petizione online e via di questo passo.
Durigon, com’è noto, è colpevole di aver proposto il cambio di intitolazione a un parco di Latina – sua città-collegio – da “Falcone e Borsellino” a “Mussolini” (Arnaldo: il fratello del Duce, cui venne inizialmente intitolato il parco nell’allora “Littoria”). Una sparata indubbiamente fuori da ogni misura politica e forse anche civile: soprattutto da parte di un membro del governo Draghi, di unità nazionale. Per questo l’esecuzione pubblica di Durigon – non importa ad opera di quale “moral suasion” – sembra ora nell’ordine probabile delle cose: anche in chiave di diversivo ferragostano da parte di un Pd e di un M5s alla caccia disperata di ogni feticcio mediatico.
Durigon gliel’ha certamente offerto su un piatto d’argento. Ma sicuramente non ha peccato di incoerenza come tutti quelli che fingono di scoprire oggi quali sono le radici politico-culturali di Durigon. Soprattutto i giornalisti e i loro editori: che Durigon lo hanno conosciuto bene. Il ricordo è anzi ancora fresco.
Prima di approdare alla Lega “nazionale” di Matteo Salvini – per la quale è stato eletto per la prima volta deputato nel 2018 – il politico laziale è stato a lungo sindacalista dell’Ugl, organizzazione legata ad An. L’Ugl di Renata Polverini, presidente della Regione Lazio per il centrodestra, oggi parlamentare FI. Due “fascisti”, Polverini e Durigon, nel gergo irriducibile della stampa “antifascista”. Eppure soltanto due anni fa Durigon non era affatto dipinto come un “fascioleghista” da fucilazione sommaria a mezzo stampa. Si era invece trasfigurato – e per certi lo resta tutt’oggi – in “valoroso combattente per la libertà”: la libertà di stampa. La libertà economica dei giornalisti e degli editori di giornali, quella delle pensioni e degli ammortizzatori sociali del settore.
Da sottosegretario al Welfare – del vicepremier M5s Luigi Di Maio – fu Durigon a firmare un emendamento al “decreto Crescita” varato dal Conte 1. Fu quel provvedimento a salvare dal commissariamento l’Inpgi, l’ente previdenziale dei giornalisti, già in forti difficoltà di bilancio. È stato Durigon ad assumersi la responsabilità politica formale di tenere in vita l’ente previdenziale che gli editori della Fieg e il sindacato unico dei giornalisti Fnsi avevano privatizzato all’inizio degli anni 90, senza però riuscire a mantenerne la stabilità. È stato il sottosegretario leghista a patrocinare la soluzione tecnica: il passaggio per decreto di migliaia di addetti alla comunicazione – nella Pa e nel settore privato – dalla previdenza pubblica dell’Inps a quella privata e pericolante dell’Inpgi.
Il provvedimento è apparso fin dall’inizio di incerta efficacia e di dubbia legittimità: è stato per questo duramente contestato dai comunicatori. È stato invece fortissimamente sostenuto da Inpgi, Fnsi e Fieg: anzitutto perché sulla carta avrebbe assicurato l’autonomia della cassa e quindi la pretesa indipendenza generale della “libera stampa” da ogni condizionamento statale. L’“emendamento Durigon” è diventato legge, benché l’operatività sia stata fissata solo per il 2023. La previsione è quindi tuttora in vigore, sebbene la probabilità di vederla concretizzata appaia oggi parecchio diminuita.
Nel frattempo la crisi dell’Inpgi si è infatti aggravata e il governo Draghi (in cui al Welfare è seduto il Pd Andrea Orlando) ha deciso un semi-commissariamento: entro il 20 ottobre una commissione formata da Presidenza del Consiglio, Mef, Welfare e Inps dovrà ora valutare con i vertici Inpgi lo sbocco di un dissesto tendenziale. Ciò non ha però impedito all’Inpgi di varare in extremis una manovra di austerity come impegno finale in direzione dell’approdo nella terra promessa dall’emendamento Durigon: l’allargamento forzoso della platea dei contribuenti ai comunicatori. La resistenza di Inpgi, Fieg e Fnsi alla ripubblicazione nell’Inps è quindi ancora indissolubilmente legata al nome del sottosegretario “mussoliniano”: di cui la “stampa democratica” chiede a gran voce la cacciata. Com’è potuto accadere?
È accaduto che nella primavera 2019 sia stato M5s ad imporre degli “Stati dell’editoria”: solennemente aperti dal premier Conte e organizzati dal sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi. Dietro la facciata istituzionale, l’ala dura (grillina) del partito di maggioranza parlamentare – egemone nel governo gialloverde – aveva progettato una resa dei conti con tutti i “poteri forti” mediatici: con la grande editoria privata (Berlusconi, Agnelli, De Benedetti, Cairo, Caltagirone, Confindustria etc.) e quella pubblica (Rai). E c’erano pochi dubbi sui fini e sui mezzi: Crimi aveva già tagliato in modo esemplare i contributi a Radio Radicale, puntando a rinegoziare da zero – e da posizione di forza – tutti gli aiuti pubblici a un’editoria in profondissima crisi.
Le cose sono andate diversamente: gli Stati generali sono stati interrotti dopo poche settimane dal ribaltone di governo; e mai piè ripresi. Ma nel frattempo non poteva evidentemente essere il vicepremier Di Maio – titolare di Welfare e Mise – a sostenere la norma “salva- Inpgi”. Spuntò il suo sottosegretario leghista, ex sindacalista Ugl: fra gli applausi della “libera stampa”. La stessa che oggi ha pronunciato una fatwa nei confronti di Durigon (facendo eco ai duri di M5s): salvo continuare ad agitarne l’emendamento-bandiera contro il governo Draghi. Che pure vorrebbe salvare le pensioni dei giornalisti attraverso l’Inps: dando “garanzia pubblica”, ha raccomandato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ma l’Inpgi continua a preferire Durigon.
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