Non ci vuol molto per capire il nervosismo dei socialisti europei. Nell’euro-parlamento appena eletto sono ancora saldamente il secondo partito, con 136 seggi su 720. Ma nei cinque anni precedenti gli eurodeputati di S&D erano 153. Voti e seggi sono stati persi in pressoché tutti gli Stati membri (non stanno meglio i “cugini” verdi: ricaduti il 9 giugno da 72 a 53). Basta comunque guardare la mappa dei governi Ue per capire come la gloriosa famiglia socialdemocratica europea rischi una storica estinzione dalle stanze dei bottoni.



È durato lo spazio di un paio di mattine anche il miraggio del Nuovo Fronte Popolare francese di tornare al potere. E il risveglio è stato atroce: con la nomina di un premier gollista, che potrà governare solo con la “non sfiducia” dell’estrema destra.

Due soli grandi Paesi europei rimangono intanto nelle mani di un premier socialista: la “locomotiva” tedesca e la Spagna. Ma a Berlino sono in molti a chiedersi se il cancelliere rossoverde Olaf Scholz sopravviverà al voto locale in Brandenburgo, in programma domenica 22 settembre. È un altro Land dell’ex Germania Est, “fratello” di Turingia e Sassonia, dove dieci giorni fa tutti i partiti della maggioranza di governo hanno riportato una storica disfatta a vantaggio degli opposti estremismi di AfD e BSW. A Postdam i polls sono meno apocalittici, ma sempre molto sfavorevoli. Alla scadenza naturale per il voto politico in Germania manca in ogni caso un solo anno, e non c’è più nessuno disposto a scommettere che a fine 2025 il gabinetto sarà nuovamente pilotato dalla SPD. Salvo colpi di scena al timone tornerà la CDU, non da ultimo il partito di Ursula von der Leyen, numero uno a Bruxelles.



In Spagna, intanto, Pedro Sánchez continua a essere braccato dal leader separatista catalano Carles Puigdemont, che da latitante in Francia reclama il pagamento della cambiale grazie a cui i socialisti hanno ribaltato la sconfitta al voto 2023. Sul lato opposto, la controversa amnistia ai golpisti di Barcellona 2017 ha attirato su Sánchez le ire della magistratura spagnola, che ha messo nel mirino la moglie del premier per presunti finanziamenti politici irregolari.

È su questo sfondo che, alla stretta finale, la Commissione von der Leyen 2 si caratterizza già in partenza per un colore rossoverde molto stinto (la nuova “ministra degli Esteri” – la estone Kaja Kallas – è liberale e l’eterno cane da guardia para-tedesco sui bilanci – il lettone Valdis Dombrovskis – è popolare ed è stato strategicamente piazzato alla ricostruzione ucraina). Sulla carta sarebbero comunque 2 su 5 i vicepresidenti esecutivi socialisti nella cabina di regia attorno a “Ursula”. Ma già uno – lo slovacco Maros Sefcovic – non è più un socialista doc, sballottato nelle turbolenze politiche interne del Paese guidato dal populista Robert Fico.



Resta Teresa Ribeira: finora ministra per l’Ecologia del governo Sánchez, data dal toto-nomi come candidata alla super-delega all’Antitrust (la più importante) oppure alla transizione ecologica e digitale (di fatto il NextGeneration Ue, con cui il socialista olandese Frans Timmermans è stato il primo vicepresidente di Ursula 1). È attorno a Ribeira che i socialisti europei (tedeschi) stanno alzando il filo spinato: e hanno attivato un fuoco di controbatteria strumentalmente politico, indirizzato principalmente contro il commissario italiano Raffaele Fitto, candidato a un’altra vicepresidenza esecutiva.

 

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