Il caso Formigli-Renzi non ha conquistato le aperture dei grandi media. La stessa vittima – il giornalista di La7 che si è visto pubblicare foto e indirizzo di casa su account Fb di sostenitori di Italia Viva – ha sì parlato di “squadrismo”, respingendo la “finta solidarietà” del senatore fiorentino. Formigli si è però subito premurato di accostare lo shitstorming di Iv (palesemente sospetto di ritorsione per l’attenzione di Piazzapulita per  l’acquisto della nuova casa di Renzi) allo “stile di Matteo Salvini”. Ed è questa particolare angolatura che sembra meritare qualche riflessione (del merito della presunta intimidazione di Renzi alla libera stampa – e non sarebbe la prima volta – dovrebbero occuparsi anzitutto l’Ordine professionale dei giornalisti e le loro diverse rappresentanze sindacali: per ora, tuttavia, silenti).



Cosa accomuna i due Mattei della politica italiana odierna? Eugenio Scalfari – nel suo ultimo “sermone” domenicale, rientrato dopo molto tempo nel vivo del momento politico nazionale – si è detto preoccupato dallo stile “bonapartista” di Renzi anche più che da Salvini. Il primo gli sembra oggi più del secondo vicino all’identikit dell’Uomo Forte disegnato-denunciato pochi giorni fa dal Censis. Sul giudizio del fondatore di Repubblica (presumibilmente filtrato attraverso i suoi altissimi interlocutori abituali) hanno certamente pesato i rumor di contatti recenti fra i leader di Lega e Iv, si dice mediati da Denis Verdini.



Tutti senatori: Salvini, Renzi e Verdini. Però in momenti e circostanze diversi. E forse val la pena cominciare da qui: dal fatto che Renzi è senatore solo dal marzo 2018. Nella legislatura precedente non lo era e non era mai stato parlamentare prima. Era stato eletto presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. Era stato poi scelto come leader dai militanti Pd in “primarie” peraltro di scarsa tradizione. Ed è stato unicamente sulla base di questo cursus che Renzi è potuto ascendere direttamente al doppio ruolo di segretario del Pd e premier: in un passaggio fortemente appoggiato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.



È stato così che Renzi ha potuto governare l’Italia per mille giorni in una situazione di più che virtuali “pieni poteri”. Questo – val la pena di ricordarlo – nonostante il Pd non avesse registrato un’affermazione piena alle politiche del 2013. Chi ha consentito al centrosinistra di governare per l’intera scorsa legislatura (eleggendo fra l’altro Sergio Mattarella al Quirinale) è stata la dissidenza di una pattuglia di senatori di FI, benevolmente concessa da Silvio Berlusconi e capitanata da Verdini (poi non ricandidatosi nel 2018 in seguito a una pesante condanna per il crack di una Bcc toscana). È maturato comunque in questa cornice (fra Pd, governo, Parlamento, Quirinale e grandi media) il tentativo – alla fine condotto da Renzi con stile personalistico – di cambiare la Costituzione repubblicana. Un tentativo clamorosamente bocciato dagli elettori italiani nella verifica democratica del referendum  2016.    

E Matteo Salvini? Oltre ai ripetuti incarichi elettivi nel consiglio comunale di Milano, l’attuale leader della Lega si è candidato in numerosi contest elettorali di primo livello ed è sempre risultato eletto: due volte alla Camera e quattro volte europarlamentare, approdando al Senato nel 2018. In questa veste è stato vicepremier e ministro dell’Interno fino alla crisi di governo dell’agosto scorso: quando – in Senato – è stato oggetto di un violento attacco personale e politico da parte del premier Giuseppe Conte. Mai democraticamente eletto a nulla in vita sua.

Può darsi che i senatori Salvini e Renzi mostrino a qualche osservatore uno stile comunicativo somigliante. Certamente è diversa la storia politico-istituzionale dei due, soprattutto sul terreno critico dell’accountability costituzionale verso la sovranità democratica. Per giudicare la crisi degli “stili” della vita pubblica italiana sta peraltro mettendosi al lavoro una commissione parlamentare straordinaria voluta dalla senatrice a vita Liliana Segre: sarebbe sorprendente che il caso Formigli-Renzi venisse ignorato.

Nel frattempo possono non essere inutili un paio di ultime constatazioni. L’unica legittimazione elettiva ai “pieni poteri” di Renzi è giunta dall’affermazione del Pd alle europee del 2014 (alle quali, peraltro, Renzi aveva preferito non candidarsi, pur essendo già premier-segretario). Salvini, invece, ha finito per essere espulso dalla maggioranza di governo dopo che la Lega ha riportato una paragonabile affermazione alle europee 2019 (e il leader era candidato capolista in Calabria). Il Pd, dal canto suo, è stato richiamato al governo pur avendo dimezzato i suoi consensi rispetto al 2014. E fra gli obiettivi dichiarati dalla nuova maggioranza vi è quello di impedire lo svolgimento di elezioni politiche almeno fino al 2022: quando il Parlamento sarà chiamato ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, almeno a scadenza ordinaria.

Dopo la nascita del Conte-2, infine, Renzi ha subito promosso una scissione e gli attuali sondaggi attribuiscono a Iv un decimo delle preferenze assegnate alla Lega. Certamente poco per pensare di governare come fra il 2014 e il 2016: con “pieni poteri” benché da non eletto. Da eletto, Renzi potrebbe invece sicuramente contribuire a far cadere l’attuale maggioranza di governo, a provocare la fine della legislatura, a promuovere – se rieletto – nuove maggioranze parlamentari. Nel caso, sarebbe solo democrazia funzionante: come in Israele, dove – salvo colpi di scena – stasera verrà formalizzata la necessità di votare per la terza volta in meno di un anno. O come in Gran Bretagna: dove domani il premier Boris Johnson – divenuto tale pochi mesi fa dopo una consultazione interna fra gli iscritti Tory – sottoporrà al vaglio di tutti gli elettori britannici il suo programma di governo per il Paese dopo Brexit.