Quanto Massimo Giletti sia un epifenomeno della comunicazione moderna è fatto ancora poco chiaro. Le sue trasmissioni assomigliano allo scorrere dei video su di una qualsiasi piattaforma social. Come su un social si passa dalle ricette per la torta ai lanci dello Space X di Elon Musk, da Giletti si passa dalla cronaca rosa alle cose di mafia, con la stessa scenografia e la stessa faccia. Il che non vuol dire sia in sé un male. Fare informazione senza “spettacolo” è ormai quasi impossibile in tv e Giletti lo sa bene.
Solo che, dopo aver affrontato tanti casi “minori” di mafia, usati come grimaldello per spiegare come vanno le cose in certe aree del Paese, si è imbattuto nella madre di tutte le questioni. Le stragi di Falcone e Borsellino, il rapporto tra i pìccioli e Berlusconi, la presunta trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia. Il supereroe delle battaglie di retroguardia (per quanto importanti) ha trovato la sua kriptonite. Esposto per alcune settimane al tema, è stato allontanato dallo schermo. I suoi messaggi al popolo della tv, che bene conosce, hanno cambiato a tal punto natura da diventare un dialogo a distanza tra i diversi attori di quegli anni, che hanno preso la telecamera del buon Giletti come un megafono per dirsi (senza dirle) cose a tratti incomprensibili, ma di sicuro inquietanti.
E ora che si poteva fare chiarezza, con Chicco Mentana pronto a fare da portatore di luce per Giletti, si ferma tutto. “Meglio il silenzio”, pare sia stata l’indicazione. E quindi tutti zitti ad attendere che i fatti siano chiariti da magistrati ed inquirenti. La questione sembra indefinita e sfocata come una nave che cerca il porto immersa nella nebbia. Ed il suo capitano, smarrito, ha lasciato il comando a piloti diversi che sanno forse meglio orientarsi tra i fumi, a volte diabolici, che esalano dalle parole ambigue di chi di mafia campa.
Adesso che è lontano dalle telecamere, Giletti potrà capire meglio cosa è e cosa vuol essere. Il gioco complicato in cui si è impelagato non prevede sopravvissuti. O si porta a casa un colpevole o si è colpevoli. Giletti è della scuola di Minoli, uno che ha inventato l’infotainment in Italia e da lui ha appreso la lezione del melting pot, del mischione di fatti diversi per tenere la gente legata al video. Da lui ha anche ricavato un certo gusto per le interviste ed una certa attenzione per i personaggi del momento. Il resto ce lo ha messo lui. In primis una certa carica di populismo che serve ad indignarsi senza troppo riflettere, a cui si aggiunge una retorica “della verità” che funziona però da detonatore.
Perché chiunque si occupi di informazione in tempo di guerra (e quella alla mafia era ed è una guerra), sa che la prima vittima è la verità e che cercare di tirarla fuori significa, spesso, essere usati da chi ha una sua verità da raccontare in contrapposizione ad altri, per far valere i propri interessi. In guerra conta vincere, in ogni modo, e uccidere i fatti, nascondere gli eventi, mettere a tacere quel che rende meno probabile un vittoria è cosa lecita. Solo dopo decenni, se non secoli, forse la verità può aver senso. Non è un caso che tanti misfatti degli Alleati siano venuti fuori solo dopo settant’anni dalla fine della guerra. O che ancora non sappiamo, e non sapremo fino in fondo, la verità sulle guerre in Iraq, sulla ritirata degli Usa in Afghanistan, su ciò che davvero è accaduto in Vietnam.
La verità, se torna, torna quando i fatti sono freddi, il sangue sparito, i motivi delle guerre sepolti. Interessarsi di quello che accade mentre una guerra viene combattuta significa prenderne parte, essere attori anche senza saperlo, essere usati anche senza volerlo. Ed è perciò necessario stare da una parte. E fare la propria parte in commedia per essere utili.
Stare nel mezzo, in guerra, cercare la verità a prescindere da quale sia la propria parte, significa essere accusati di collaborare con gli uni o con gli altri. Rimanendo schiacciati.
Pertanto cercare la verità rischia di trasformarsi nell’essere megafono per “una verità”, quella che più serve a chi usa quel megafono. Ci vuole quindi tanta forza per essere protagonisti di un tale sforzo, sapere che si rischia oltre alla vita (come in ogni guerra) anche la propria identità. Entrambe cose che, una volta perse, non tornano.
Giletti può scegliere cosa vorrà essere e come vorrà stare in tv. Se il suo sacrificio lontano dal video sarà funzionale a vincere la guerra, sarà stato utile, se poi verrà fuori una verità, che faccia più comodo a qualcuno, lo staremo a vedere. Per ora resta immerso nelle nebbie tutto quel che accade lontano dalle telecamere, fuori da quello spazio domenicale che riempiva di nomi, storielle, indignazioni, fatti che oggi però tacciono. In attesa che le parti in guerra decidano che fare di Giletti. Poi sarà a lui a capire come uscirne. Le vie del Signore sono infinite.
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