Qualche giorno fa a tenere banco in Italia era la questione dell’ammissibilità del referendum. Oggi sarà il caso della deliberazione di Giunta sul caso di Nave Gregoretti. Intanto, negli Usa, in prossimità delle elezioni di novembre 2020, il Congresso si prepara ad avviare l’impeachment di Trump, tanto che Trump decide di scegliersi come difensore Kenneth Starr: un eccellente avvocato, che sa stare in una Corte, che sa di diritto costituzionale, e che negli anni 90 era stato prosecutor di Bill Clinton ai tempi dell’affare Lewinski.



Nel frattempo Alan Dershowitz, uno dei massimi giuristi americani – per capirci, l’uomo che ha fatto prosciogliere O.J. Simpson, che in passato è stato vicino al clan dei Clinton, e che ha dichiarato di avere votato sempre democratico – pubblica un libro interessantissimo, dove spiega a cosa serve l’impeachment contro Trump (Trumped Up. How criminalization of political differences endangers Democracy, New York 2017). E a cosa serviva contro Clinton nel 1996. E a cosa serviva contro Nixon. La sua tesi è facile e precisa. Se passa l’impeachment contro Trump gli Usa diventano una repubblica parlamentare.



Ed è una tesi più che giusta. Gli Usa sono un sistema in cui il vertice dell’esecutivo è il Commander in chief, ha la responsabilità dell’esercito, della politica estera, della protezione dei confini. È scelto direttamente dal popolo ogni quattro anni. E, quel che più importa, esercita le sue funzioni senza controllo parlamentare.

Il controllo di Congresso (i rappresentanti del popolo) e Senato (i rappresentanti degli Stati federati) c’è, ma si esercita in modo indiretto sull’approvazione degli atti che deve proporre il governo federale, a partire dal bilancio: senza i soldi delle tasse il Commander in chief non fa nulla. Ma Congresso e Senato non possono né dare, né togliere la fiducia al Presidente, perché quella gliela dà ogni quattro anni l’esito elettorale.



È un sistema molto semplice, che si fonda sulla competizione tra esecutivo e legislativo, dove, per fare praticamente ogni cosa, si è costretti ad andare d’accordo. Non è il sistema perfetto, come gli alfieri del “facciamo come” ci vorrebbero far credere. Tant’è vero che, quando viene preso, esportato e tradotto in Sudamerica, non ci regala il Campidoglio e la White House, ma semmai la Casa Rosada e  il Congreso de la Nación. E capirete che la differenza c’è. Ma comunque negli Usa funziona, ed ha funzionato piuttosto bene negli ultimi duecento anni.

La chiave di volta è che Presidente e Congresso devono essere scelti indipendentemente l’uno dall’altro. Se vanno d’accordo perché sono tutti e due democratici o repubblicani, bene (bene per modo di dire; riescono a litigare lo stesso, ma in modo garbato). Se non vanno d’accordo devono trovare il modo di convivere battagliando su tutto (ed è quello che succede da tre anni abbondanti, da quando c’è in giro Trump). Conseguenza è che il sogno di ogni democratico è vivere in un sistema in cui sia possibile sfiduciare l’esecutivo e mandarlo a casa, esattamente come avviene in Europa, dove in ogni momento si può mandare a casa tanto Theresa May come Boris Johnson. Conte, da questo punto di vista, è un’anomalia del sistema, però prevista dal sistema. Tu lo mandi a casa, e lui ci va. Solo che a casa si fa la doccia, si cambia il vestito, e ritorna sorridendo.

Ma comunque, siccome i sogni non sono realtà, negli Usa sanno che bisogna arrangiarsi con quello che c’è. E l’unico modo per mandare via un Presidente è quello di metterlo in stato d’accusa per aver fatto qualcosa di penalmente rilevante: tipo alto tradimento o attentato alla Costituzione. Non importa che sia successo davvero. Basta dirlo sui giornali, costruire un processo più o meno farlocco (tanto, che sia farlocco lo si sa alla fine, e si può sempre dire: scusate, ci siamo sbagliati) ed aspettare l’effetto politico mentre il processo si svolge. Più dura meglio è, comunque vada a finire. Vi ricorda qualcosa?

È per questo che il da sempre democratico Dershowitz – che, da buon democratico, dovrebbe lavorare per mandare Trump di fronte alla Corte Suprema – ci dice che l’impeachment trasformerebbe gli Usa in una Repubblica parlamentare del genere di quelle europee. Perché di fatto consentirebbe al Congresso di sfiduciare in ogni momento qualunque Presidente e creerebbe, se non un precedente, una prassi destinata a mutare per sempre la Costituzione americana. Insomma, sfondata una volta la porta, ci si infilerebbero tutti, e non ci sarebbe possibilità di ritorno. Sai quanto difficile sarebbe andare a rovistare nella spazzatura di ogni Presidente per mandarlo sotto accusa? Lo si è già fatto vent’anni fa con la storia di mutande di Clinton, quando gli illuminati commentatori nostrani scambiavano una patologia del sistema istituzionale americano per la manifestazione dell’etica protestante e della morale sessuale dei Padri Fondatori. Lo si è appena fatto con la storia delle interferenze russe, finita com’è finita. Adesso si è pronti a ricominciare.

In realtà Dershowitz nel dire queste cose non difende Trump. E neanche la Costituzione Usa. Semplicemente – da eccellente giurista quale è – capisce che il Politico deve muoversi all’interno del Giuridico. E che se scassi la forma giuridica della politica, impiegandola come ti fa comodo, alla fine non hai nemmeno più politica, né diritto, ma soltanto quella guerra di tutti contro tutti, che porta alla distruzione dello Stato nel giro di qualche generazione.

Ne sappiamo qualcosa, di questo, qui in Italia. E lo sappiamo da quando l’uso improprio del Giuridico ha portato prima alla rimozione di un’intera classe politica, nel triennio 1991-93, e poi alla giurisdizionalizzazione della politica nel suo complesso. Da lì non siamo mai tornati indietro. E non siamo mai tornati indietro non perché non ci sia provato, ma semplicemente perché non è possibile.

Da questo punto di vista, davvero Tangentopoli è stata la fine della Repubblica. Da allora è stato un continuo guardare ai bilanci di Fininvest e alle mutande di Berlusconi; gridare all’alto tradimento e all’attentato alla Costituzione se il Presidente, mentre fa qualcosa che può fare, dice qualcosa che non dovrebbe dire (Mattarella con Savona); si può urlare che il ministro dell’Interno sequestra le persone quando gli impedisce di entrare a piacimento sul territorio nazionale (andare a guardarsi Tom Hanks in The Terminal, per capire la differenza); si può esibire qualche fotografia di Tizio o Caio a pranzo con qualcuno un po’ meridionale e un po’ cafone per sostenere che è colluso con la mafia (c’è gente che ci campa e ci fa soldi da una vita con queste operazioni); si può urlare sempre all’alto tradimento se il ministro dell’Economia fa il furbo – come purtroppo sa benissimo di poter fare – in Ecofin e gioca sui Trattati (tanto il controllo parlamentare funziona come il controllo dei consiglieri comunali sull’operato dell’assessore, e si fonda sul principio per cui non puoi trovare quello che nemmeno sai che esiste).

Ma non è stato solo il Giuridico ad entrare nel Politico. A partire dal triennio ’91-93 c’è stato anche il processo inverso: il Politico è entrato nel Giuridico. E da allora abbiamo iniziato a baloccarci con l’ingegneria costituzionale e con le leggi elettorali; si è diffuso il costituzionalismo del “facciamo come in…” dove i tre puntini possono essere riempiti con la citazione di chissà quale astruso paese: più astruso è e più bella è la figura che si fa (una volta, lo ammetto, solo per divertirmi, l’ho fatto anch’io, citando la Corte costituzionale di Baku in un convegno sul mandato dei giudici costituzionali); si fanno discorsi improbabili su referendum assurdi, come ci ha appena detto la Corte costituzionale. Il risultato sono state 7 (sette) leggi elettorali in vigore dal 1945 ad oggi, e adesso si sta discutendo, con i soliti argomenti, della numero 8. Ormai questa è una Repubblica dove ogni maggioranza politica si scrive la legge elettorale per le prossime elezioni. Peggio che in Argentina.   

Il confine tra Giuridico e Politico è stato rotto e le due cose si sono mischiate. Il risultato è l’orrenda e maleodorante marmellata che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. E sotto il naso. Che chiamiamo, in mancanza di meglio, dibattito pubblico e vita politica. E che ha riempito di sé le istituzioni del Paese e la sua classe dirigente.

Credo che Dershowitz – con l’occhio lungo del grande giurista che è – stia cercando di evitare tutto questo al suo Paese. Per quel che vale, gli auguro Buona Fortuna, anche se non ha bisogno che glielo dica io.