Greta? “Un errore di programmazione del copione ideologico preparato dai soliti noti”. Teorie cospirative? Macché. Tre mesi dopo la conversazione sulla Cina, chiediamo a Chris Foster di condividere ancora una volta senza “filtri” alcune riflessioni sulla spirale “ambientalista”. Vista ovviamente da chi come lui si occupa di investimenti finanziari.



Dal suo punto di vista di investitore, come vede l’impatto della cosiddetta “green revolution” sui mercati?

È troppo presto per cercare di adattare completamente strategie di investimento ai nuovi trends e bisogna distinguere gli impatti macroeconomici e sociali dalle conseguenze più specifiche per produttori e consumatori e cioè le conseguenze microeconomiche. La combinazione di questi impatti con diverse lunghezze d’onda si tradurrà poi in performance e ritorni dei vari assets finanziari.



Non è un po’ preoccupato per le conseguenze dell’ambientalismo radicale sulla crescita economica?

Ho fiducia nei mercati e nella loro capacità di adattarsi ad una classe politica senza credibilità in termini di “long term policy”. Ma è certo che la limitazione delle emissioni, soprattutto industriali, inizierà a intaccare alcuni settori. Questo è chiaro.

Posso dedurre che i paesi emergenti, grandi inquinatori e pure in modo crescente, sono a rischio rallentamento?

Paradossalmente sono più preoccupato per i paesi sviluppati che per gli altri, che dovrebbero essere in teoria più danneggiati da forti limitazioni alle emissioni, data la più elevata componente di output industriale rispetto al terziario che domina altrove.



Più preoccupato per Europa e Usa, dunque. E perché mai?

La maggior parte dei mercati emergenti non ha grossi incentivi ad adottare politiche “shock” per ridurre emissioni di CO2. Quei paesi stanno ancora creando una middle class e sono in un circolo virtuoso ma delicato fatto di aumento della domanda interna e aumento dei consumi privati, come in Cina; stabilità politica – Russia, Cina, Brasile, India, Est Europa; bassa o minore dipendenza da debito estero. Il tutto in un contesto di minore sensibilità ambientale. Perché rischiare di danneggiare il trend? Per ricevere una menzione d’onore dall’Onu? Lo status quo va bene per la classe politica e per la maggioranza degli elettori. Non serve a nessuno, nel breve, la svolta verde.

Lei sta dicendo che sono i paesi più sviluppati a volere politiche pro-ambiente, ma al tempo stesso a prendersi rischi di policies depressive. Perché?

Il tema del surriscaldamento globale antropico, assunzione che potrebbe anche essere vera, è stato gestito scientificamente dai partiti “dem” occidentali. Ma questi partiti, e non solo loro, vivono una crisi strutturale. Le coalizioni di quasi tutti i paesi europei stanno in piedi per una manciata di seggi. Gli equilibri sono instabili e rendono impossibile l’attuazione di politiche credibili di lungo periodo.

E quindi? Non la seguo. Perché sarebbero orientati a politiche ambientaliste radicali, che sono potenzialmente depressive e socialmente delicate da implementare, come dimostra, su tutti, il caso dei gilets jaunes?

Beh, in primo luogo, come sostengono i dems Usa più a sinistra, da Bernie Sanders a Alexandria Ocasio-Cortez, è abbastanza entusiasmante pensare di fare ripartire l’economia in modo equo e sostenibile e creare occupazione con una “green revolution”, con un “Green New Deal”… Merita una lettura la risoluzione presentata dalla sopracitata congresswoman. È un manifesto che può suonare molto entusiasmante, nonostante a mio parere abbia un contenuto in gran parte senza senso, inapplicabile, incongruente e socialmente pericolosissimo. Invito a leggerlo.

In secondo luogo?

I partiti dem/labour si sono resi conto che senza una forte componente ideale e ideologica, come quella su cui si basa l’ambientalismo radicale, non riescono più a portare alle urne i giovani e gli outsiders della società.

Si spieghi meglio, Foster.

Le sinistre e le élites liberal mondiali sono al loro apice di penetrazione culturale e mediatica, ma stanno stranamente perdendo il controllo della situazione politica in molti paesi come mai era avvenuto. Mai come oggi è fondamentale ridare connotazioni ideologiche alle campagne elettorali per “comprare” il consenso delle fasce meno propense a votare, e che si sentono non rappresentate o trascurate. O di quelle fasce della popolazione che in assenza di una forte componente ideologica o “movimentista” hanno la tendenza o a non votare. Di certo fanno parte del target elettorale la maggioranza dei giovani.

Può essere più concreto su questa teoria che ha già menzionato prima?

Il mondo progressive liberal americano e i “cugini” europei sono in una profonda crisi, che spazia dalle finanze dei partiti alla percepita lontananza dalle esigenze della popolazione e all’incapacità di creare temi e onde emotive che aggregano il consenso. E non sanno come uscirne. 

Di quali partiti parla esattamente?

Democratici Usa, Labour inglese, socialdemocratici europei e Pd in Italia.

Dunque non hanno più soldi in cassa e i loro voti sono in calo. Cosa fanno?

Non hanno scelta, se vogliono riprendere il controllo anche politico della società: devono vendersi a chi ha budgets illimitati per perseguire la propria agenda e a chi ha potere economico e mediatico senza confronti. Si va dalla Open Society Foundation alle decine e decine di fondazioni finanziate dalle grandi società quotate di Wall Street, fino ai colossi tech. In sintesi, la politica tradizionale americana ed europea di stampo liberal ha bisogno di Soros e Zuckerberg – due nomi per tutti, semplificando il concetto – per sopravvivere. Loro pensano a 10-20 anni, mentre i loro amici politici al massimo a 6-12 mesi.

E l’ambiente cosa c’entra?

Adesso ci arrivo. Un’ulteriore leva utilizzata dai liberal deriva dalla capacità di cavalcare la battaglia ambientalista, pur avendo piena coscienza che, a fronte di un probabile fallimento degli obiettivi dichiarati, ci sarà un sicuro aumento delle tensioni sociali e una radicalizzazione delle posizioni politiche. In un mondo “normale” non sarebbe immaginabile tutto ciò…

Quindi secondo lei non c’è una base di buona fede nella nuova ondata ambientalista liberal?

Mah, è difficile giudicare le coscienze altrui. Sapendo di generalizzare troppo, direi che il grado di genuinità del nuovo spirito ambientalista della classe dirigente liberal e socialdemocratica è vicino a zero. Ritengo che quasi nessuno, tra i profili alti liberal negli Usa e in Europa, creda nella possibilità di raggiungere obiettivi significativi in termini di inversione dei trends climatici, né tantomeno nella possibilità di implementare una politica coerente sul lato ambientale senza grandi iniquità ed elevati costi sociali.

Chi ne pagherà il prezzo?

Aspetti. Dirò di più: stava andando tutto abbastanza bene, secondo il copione deciso dai liberals di Washington, dall’Onu e dalle varie fondazioni e Ong, quando il fattore Greta è esploso. Forse un po’ troppo! 

Cosa significa un po’ troppo?

Vuol dire che tutto ha preso un’accelerazione pazzesca e sta andando troppo in là, ben oltre quello che i dems newyokesi, Wall Street e la Silicon Valley immaginavano. Insomma, se mi consente una battuta, va bene comprarsi una Tesla e vendere il Mercedes diesel, ma rinunciare al jet privato per fare il capodanno alle Bahamas è davvero troppo.

Sta dicendo che in realtà “Greta” non è davvero così amata in certi ambienti?

Secondo me, Greta è un errore di programmazione del copione ideologico preparato dai soliti noti. Un “bug” del programma. Al Gore aveva già provato nel decennio 2000-2010 a diventare il vate dell’ambientalismo, aveva dato un’accelerazione al Kyoto Protocol, ma era così arrogante che perdette rapidamente ogni appeal e appoggio dei potenti dell’economia e della politica. Gli stessi che oggi osannano Greta avevano di fatto scaricato Al Gore. Chissà perché ora invece si strappano i capelli per Greta. Grazie a questa ragazzina, qualcuno è riuscito ad andare molto più in là del copione di ambientalismo “radical chic” amato dai californiani e newyorkesi, ricattando ora gran parte dei governi mondiali (e paradossalmente anche i governi definibili filo-ambientalisti).

Scusi se glielo faccio ripetere. Quale sarebbe lo scopo perseguito dalle classi dirigenti che sostengono la battaglia ambientalista?

Portare alle urne e poi controllare e “monetizzare” una parte crescente del blocco degli attuali non votanti, perché giovani o perché tradizionalmente incerti. Parliamo di un buon 5% di elettorato. Pensi cosa vuol dire 5% di nuovi elettori di un partito in paesi dove vota il 45-55%… comunque un obiettivo politicamente legittimo, e non esecrabile.

Ma quali sarebbero le conseguenze economiche di “Green New Deals” nei vari paesi occidentali?

Non sono in grado di fare previsioni. Ma si può dire che il costo economico di assecondare politiche opportunistiche ed elettorali sarà alto. Insomma le politiche ambientali dei prossimi 5-10 anni saranno innanzitutto orientate al consolidamento di un certo potere e solo in secondo luogo orientate ad avere forse un reale impatto sull’ambiente. 

Perché questa ostinazione nel voler attribuire una cattiva coscienza?

La teoria economica suggerisce la risposta. E comunque basta soltanto un po’ di onestà intellettuale e un briciolo di buon senso. Si ricordi la formula magica: zero emissions-2050. Ma qual è lo “statista” o il partito in grado di pianificare una transizione-trasformazione economica e sociale vera, sulla base di una visione di 20-30 anni senza avere né una buona solidità politica, e magari ricattato dagli agricoltori come in Olanda, Francia e Germania, né un cent nelle casse del proprio partito, né una chiara base scientifica per la selezione delle politiche da implementare? E chi metterebbe a repentaglio il proprio potere per policies che potrebbero dare risultati tra 30 anni? Quale sarebbe il ritorno elettorale? A chi andrebbe tale ritorno a 30 anni, a fronte di grandi sacrifici nel presente? Magari al tuo avversario politico, perché no?

Dobbiamo fare degli esempi. Qualcuno di questi approcci che lei definisce opportunistici?

Prendiamo i candidati dems alle primarie americane. Si stanno rincorrendo e trascinando a sinistra, anche se sanno che è molto pericoloso perché così facendo rischiano di perdere una parte della base dem centrista, nonché Wall Street, finanziatore storico dei dems, e magari anche i “big pharma”. Sanders e Ocasio-Cortez parlano di “Green New Deal” da decine di trillions di dollari per rivoluzionare l’economia americana. Ancora: Sanders e Beto O’Rourke parlano apertamente di politiche di riduzione della crescita demografica per fini ambientalistici con qualsiasi mezzo, letteralmente senza limiti etici. Ognuno cerca di vincere gli elettori incerti; molti slogan sono fatti per colpire le coscienze più giovani, è evidente.

Cosa può dirci di Elizabeth Warren?

Ci sarebbe molto da dire. Porto un piccolo esempio. Con lo stesso obiettivo di aumentare la partecipazione dei giovani, non è male la sua idea lanciata e credo già ritirata di cancellare il debito degli studenti universitari, gli “student loans”, ovviamente scaricandone il costo sulla collettività: in buona parte famiglie della lower middle class o della classe povera che non hanno mai nemmeno considerato di poter mandare i figli all’università. Ma mentre vi è qualche milione di giovani laureati, studenti universitari e futuri universitari “elettoralmente monetizzabili” quasi come una community uniforme (la parola cool oggi potrebbe essere “tribe”), vi sono dall’altro lato decine di milioni di giovani fuori dai vari circuiti di potere e education universitaria che ignorano queste politiche e non sono in grado di allinearsi o organizzarsi politicamente per “punire” il legislatore che li danneggia. La Warren vive a Boston e insegna ad Harvard, quindi vede quotidianamente una fetta molto speciale della società americana…

Dove ci porta questo discorso?

Dimostra due cose. La prima, che Warren è bravissima a toccare temi sensibili agli studenti e sta crescendo alla grande. La seconda, che Sanders, socialista e ambientalista radicale, ottiene molti più consensi di Biden in ambiente universitario, frequentato dal top 25% della popolazione. Conferma che i giovani sono sensibili verso chi parla dei loro temi preferiti. Quindi vale la pena spostarsi a sinistra per prendere quella fetta di elettori.

E in Italia? Riesce a seguire il dibattito sul fronte ambiente?

Guarda caso le stesse persone che chiedono politiche ambientali forti sono quelle che spingono per il voto ai sedicenni, per lo ius soli e altre idee con simili obiettivi. Ma è la stessa storia che vediamo in varie forme in tutto l’Occidente. È un vasto movimento caratterizzato da un eccezionale coordinamento di notizie, azioni, propaganda e strategia.

E le multinazionali di successo come si posizionano di fronte alla crescita della sensibilità ambientalista? Devono adattarsi, immagino.

Suggerisco di sfogliare i mega “sustainability reports” che soprattutto le società quotate pubblicano annualmente sul loro approccio ESG (environmental, social, governance, ndr), per rendersi appetibili a investitori sensibili a questo approccio. Consiglio davvero di leggerne qualcuno per fare delle riflessioni personali.

Cosa dovremmo ricavarne?

Questi reports sono quasi del tutto identici dall’Europa agli Usa, dettati da pre-definiti standards di contenuto e di “wording”. Praticamente, il sustainability report di una società che estrae ferro e rame in Amazzonia può essere confuso con quello della Danone… quindi, anche la volontà e l’ambizione straordinaria di alcuni CEOs nel campo della sostenibilità, viene diluita dal politically correct e dai dettami progressive e liberal che possono scatenare una guerra contro chi “devia” dal tracciato.

A livello di performance economica aziendale, quali saranno i long term winners o al contrario le aziende “disrupted” se la politica attaccherà business “inquinanti”?

Anche qui si possono solo fare delle classificazioni facilissime che lasciano poco ottimismo per settori come mining, oil and gas, transportation. Ma non è questo il punto più delicato. Usiamo un paradosso: Amazon con revenues annualizzate di circa 250 miliardi di dollari ha come missione aziendale lo stimolo continuo di acquisto di beni e quindi della loro produzione, indipendentemente dall’impatto ambientale che tale produzione ha. Ma Amazon come piattaforma di e-commerce è molto più “green” e sostenibile di un produttore di scarpe e borse di pelle. Google – ma non dimentichiamo Instagram e Facebook -, che ha convinto con il martellamento pubblicitario il consumatore a comprare la sua trentesima borsetta, è altrettanto “clean” e non sarà soggetto alla valanga di tasse e restrizioni che affliggeranno l’azienda assai poco “pulita” che infine produce il bene. O la società di crociere che ha pubblicizzato e venduto i biglietti attraverso Google: una è pulita e l’altra inquina… ma Google guadagna comunque sulla business e sulla pubblicità dell’inquinatore.

Quindi?

In questo incombente caos legislativo e di programmazione economica, potrebbero esserci grossi movimenti di capitale che impatteranno le valutazioni di molte società e porteranno comunque a un danno per il consumatore. In questo senso, sia l’investitore finanziario che il consumatore subiranno delle conseguenze, oltre ovviamente all’imprenditore.

Vuol dire che è sempre più difficile fare business in modo davvero “clean” e sostenibile.

Sì e no. Da un paio di decenni la Cina, l’India e il Sud-Est asiatico sono diventati la destinazione di manifatture inquinanti o poco sostenibili secondo gli standards etici occidentali. Quindi le aziende europee o americane che non riescono a sostenere i costi della sostenibilità fanno outsourcing o delocalizzano in Asia o magari in Africa. Secondo lei, Apple produce i propri chips e screen in sede a Cupertino, in California?

Immagino le sia sfuggito: in Italia il presidente della Camera Roberto Fico ha detto: “chi inquina deve pagare più tasse”.

Non ho idea di cosa abbia in mente il vostro Fico, ma la frase è eccezionalmente utile a capire i rischi che abbiamo davanti. Le ho già fatto gli esempi di quei settori fondamentali per l’economia che verranno danneggiati. Il consumatore povero avrà meno opzioni nelle sue scelte e si troverà con le sue “tasse ambientali” a finanziare i sussidi per la Tesla dei ricchi.

Chiudiamo, per favore, con un altro esempio dei paradossi a cui va incontro la classe politica che adotta superficialmente politiche verdi?

Sì, anche se purtroppo non fa ridere: il mercato dei pannelli solari che era dominato dalla Germania è ormai diventato troppo competitivo per le società europee e la produzione è ormai in buona parte localizzata in India e Cina. E ora andiamo in Baviera, il Land più virtuoso per il fotovoltaico. Immaginiamo la bellissima sensazione di appagamento ambientalista che il benestante bavarese può provare guardando il tetto della sua villetta o fattoria immersa nel verde, coperta di pannelli solari riccamente sussidiati una decina di anni fa. Invidiabile. 

Si sentirà soddisfatto.

Credo di sì. Spero però che non gli vengano in mente alcuni dettagli collaterali.

Ce ne dica qualcuno.

I sussidi che ha ricevuto per i pannelli solari provengono anche dalla parte più povera della popolazione, che paga la bolletta elettrica a multipli del costo per sussidiare le villette bavaresi e i parchi fotovoltaici in cui fondi internazionali e ricchi investitori ottengono ritorni sopra la media. Per ovviare ai costi e alla rigidità  del lavoro in Germania, la produzione è ormai affidata a lavoratori sfruttati in India. I materiali tossici, devastanti, della produzione dei pannelli solari finiscono magari nei fiumi o nelle campagne indiane. Non vorrei che dopo aver forse goduto di una mezz’ora di energia pulita al giorno, la stessa famiglia uscisse a a cena con una Bmw nuova, 4000 di cilindrata, che giustamente è irrinunciabile per un vero bavarese. Il fatto che poi il figlio ecologista si farà sussidiare l’acquisto di una Porsche Panamera Hybrid è quasi un dettaglio, a questo punto.

Per chi voterà il nostro benestante bavarese?

I figli voteranno Verdi, lui/lei magari Csu. Ma in fondo questo importa sempre di meno. Tanto, le regole che contano non vengono scritte nei parlamenti, ma negli uffici degli “azionisti di maggioranza” dei grandi partiti occidentali. 

(Federico Ferraù)