Il grottesco avvitamento politico e personale del premier Giuseppe Conte non ha del tutto oscurato una diversa vicenda rilevante nella settimana: l’esordio di Letizia Moratti come vicepresidente e assessore alla Sanità della Regione Lombardia.
Insediatasi lunedì mattina, Moratti ha immediatamente chiesto un time–out di 48 ore per la controversa decisione del governo di porre la Lombardia in zona rossa per almeno due settimane: in sola compagnia – nell’intero territorio nazionale – della Sicilia e della Provincia di Bolzano. Sull’istante il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha snobbato la richiesta giunta da Milano: che pure chiamava esplicitamente in causa la competenza del ministero nel verificare i dati dell’evoluzione Covid.
Martedì Moratti si è segnalata per una nuova presa di posizione: sulla campagna vaccinale in corso. La neo assessora lombarda ha chiesto di valutare l’opportunità di privilegiare “le regioni con Pil più alto” (nel senso di “più produttive”, capaci di un più alto “Pil pro-capite”). La questione politico-economica posta da Moratti è rimasta tuttavia senza risposta, apertissima sul tavolo politico. Quali sono i parametri socio–economici della strategia vaccinale del governo Conte e del commissario Domenico Arcuri? Anzi: esiste un minimo piano vaccinale? Il quesito è stato fra l’altro uno di quelli alla base dell’escalation polemica e quindi dello strappo politico di Italia viva nella maggioranza.
Venerdì – dopo la faticosa “non sfiducia” parlamentare al governo e l’aggravarsi della crisi politica – il ministero della Salute ha infine deciso a sorpresa di revocare in la zona rossa in Lombardia. Il passo è stato accompagnato da un rimpallo polemico fra Speranza e il governatore lombardo Attilio Fontana sull’uso scorretto dei dati Covid in regione. A proposito dei quali i maggiori media hanno accreditato – senza fondamento – la versione governativa, attribuendo gli errori alla regione quando invece è vero l’opposto. “Ai professionisti della mistificazione” ha detto ieri Fontana “ribadisco ancora una volta che i ‘dati richiesti’ alla Lombardia sono sempre stati forniti con puntualità e secondo i parametri standard. A Roma dovrebbero chiedersi come mai Regione Lombardia abbia dovuto segnalare il malfunzionamento dell’algoritmo che determina l’Rt dell’Iss”.
Il dietrofront del ministero sulla zona rossa – in adesione sostanziale alle richieste di Moratti di cinque giorni prima – resta tuttavia un fatto. E lo resta anche la credibilità del curriculum del vice–governatore lombardo: imprenditrice nel campo del brokeraggio assicurativo, presidente della Rai, ministra-riformatrice della scuola, sindaco di Milano (e vera stratega di Expo Milano 2015), ultimamente presidente di una grande banca italiana come Ubi. È l’identikit di una leader di quella “destra liberale europea” che è stata l’orizzonte a tendere – e peraltro mai raggiunto – dell’intera avventura politica di Silvio Berlusconi. Confrontando comunque il background di Moratti con quelli dell’intero governo Conte 2, il finale del “siparietto” andato in scena fra il Pirellone e Roma non può aver suscitato eccessiva sorpresa. Tutto questo conduce a una riflessione ulteriore.
Agli ascoltatori quotidiani del discorso politico nazionale, non è sfuggito un distinto “effetto Moratti”: quanto meno una singolare coincidenza con un cambio di tematica nella polemica continua fra maggioranza e opposizione. Sabino Cassese è stato particolarmente lucido anche quando ha notato per tempo che nelle frizioni istituzionali e amministrative si scaricavano nei fatti tensioni squisitamente politiche: quelle di un Paese governato da un patto M5s-Pd a forte caratura centro-meridionale in contrapposizione alle regioni del Nord, saldamente presidiate dall’opposizione. Un Paese in cui la maggioranza parlamentare sembra ormai non essere più tale nei sondaggi ma risulta protetta dall’impossibilità forzata e pregiudiziale di un chiarimento democratico-elettorale.
In questo quadro, i fari mediatici-giudiziari puntati sul presunto “sfascio dell’eccellenza sanitaria lombarda” nell’emergenza Covid sono stati per mesi le armi principali a puntello di un esecutivo asserragliato nei palazzi romani, coeso solo nell’intento originario di “tenere la Lega fuori dal governo del Paese”. L’argomento – ulteriormente usurato nel corso della seconda ondata Covid – sembra ormai sul punto di essere archiviato. E il rimpasto nella giunta lombarda – soprattutto se contrapposto all’immobilismo ingessato del Conte 2 – non è stato certamente estraneo. Né pare banale che un quotidiano come Repubblica – accanito in primavera contro la sanità lombarda di Fontana e dell’assessore Giulio Gallera – ospiti ora in prima pagina un’intervista a Moratti, a delineare un percorso di riforma caratterizzato da una maggior attenzione ai servizi territoriali.
Il discorso politico–culturale sta intanto trovando – non solo sui grandi media – nuovi “oggetti del contendere”. Il principale è la qualità della classe dirigente nazionale: in particolare quella che occupa le stanze dei bottoni del governo “dei Dpcm” guidato da Conte e le aule parlamentari nelle quali un seggio su tre è riservato a un esponente di M5s, peraltro democraticamente eletto. Ma appare appunto questo un secondo tema emergente: come può la democrazia italiana aver prodotto un parlamento, un premier, un governo come quelli visti all’opera soprattutto nelle ultime settimane? Il parlamento che ha votato all’unanimità la sua auto–riduzione (salvo poi opporsi in ogni modo al proprio scioglimento o anche solo a una crisi di governo) può decidere il ritorno a una legge elettorale proporzionale? Il “discorso” sta crescendo.