“La Polonia non è ancora morta, finché noi viviamo!”. Era uno slogan ai tempi dell’impari lotta fra il movimento clandestino popolare di Solidarność e il regime dittatoriale di Jaruselski, quando nessuna struttura poteva esistere se non identificandosi con le persone stesse, la loro libertà e responsabilità.
Neppure in Urss le cose andavano diversamente, e Memorial, la prima associazione indipendente dell’Urss, è nata nel 1989, dal sacrificio di Anatolij Marčenko (l’ultimo prigioniero di coscienza morto in lager in seguito a uno sciopero della fame per rivendicare i diritti umani fondamentali) e di Andrej Sacharov, stroncato da un infarto dopo anni di strenua battaglia da scienziato e accademico, poi da “confinato” per motivi di coscienza e infine come politico all’opposizione.
A oltre trent’anni dalla caduta del totalitarismo sovietico non è retorica, ma puro realismo dire “Memorial non è ancora morto, finché noi viviamo!”. Perché l’intera struttura di Memorial, insieme all’immenso patrimonio di materiali archivistici e documentari sulle vittime del regime, al sostegno alle loro famiglie, all’immane lavoro realizzato per restituirne la memoria e la dignità, alla straordinaria opera educativa svolta in collaborazione con le istituzioni scolastiche per aiutare le giovani generazioni a conoscere il passato, la storia del proprio paese, è stata sciolta (“liquidata”, come si dice nel linguaggio burocratico) ieri, 28 dicembre, dalla Corte suprema della Federazione Russa.
Il motivo di un provvedimento tanto drastico, come si legge nel resoconto dell’udienza finale del processo, è che Memorial crea una “falsa immagine dell’Urss come Stato terrorista e infanga la memoria della Grande guerra patriottica” [la Seconda guerra mondiale], e tutto questo avviene perché “c’è qualcuno che paga”.
Dal 2013 Memorial vive con il marchio di “agente straniero”, in base alla legge varata nel 2012 (che il Parlamento europeo ha chiesto di abrogare in quanto incostituzionale, esortando “la Federazione russa a smettere deliberatamente di creare un’atmosfera ostile nei confronti della società civile” e condannando tale legge “quale mezzo per vessare e reprimere le organizzazioni della società civile che cooperano con i donatori internazionali o esprimono opinioni politiche”. Risoluzione del 19 dicembre 2019). Ma Memorial si è sempre rifiutato di applicare, come sarebbe d’obbligo, tale marchio a tutti i suoi materiali, perché i suoi collaboratori (migliaia di volontari in tutto il paese) sono convinti di svolgere un servizio reale, indispensabile, al proprio popolo, alla società civile, alla verità. Di qui una guerra logorante, che Memorial subisce da anni, e che sembra avere avuto ieri il suo epilogo.
“È una pagina vergognosa nella storia del nostro paese”, ha scritto sulla sua pagina Facebook la storica dell’arte Irina Jazykova; e nell’aula del tribunale, alla lettura della sentenza, e poi fuori in strada è stata scandita la stessa parola: “vergogna”.
Una vergogna che ci ha preso alla gola il giorno prima, alla notizia che dopo un carosello di cinque anni di processi, assoluzioni, riaperture di processi, il tribunale ha inflitto 15 anni di lager a Jurij Dmitriev, direttore della sezione di Memorial in Carelia, in base all’infamante accusa di pedofilia nei confronti della figlia adottiva – accusa da cui peraltro è stato finora più volte scagionato. La vera colpa di Dmitriev è probabilmente quella di aver portato alla luce, lavorando infaticabilmente negli archivi e sul territorio, documenti, elenchi e fosse comuni che attestano oltre 10mila fucilazioni avvenute negli anni del terrore staliniano.
Questa sentenza – che per Dmitriev (compirà 66 anni nel gennaio prossimo) equivale a una condanna a vita – così accanitamente perseguita nonostante ogni evidenza, è solo una vendetta di mafie locali, di discendenti dei boia degli anni 30 che hanno visto mettere in piazza verità scomode? In ogni caso, per Dmitriev come per Memorial (o per altri personaggi scomodi, da Chodorkovskij a Naval’nyj, per fare solo i nomi più noti), l’apparato giudiziario sembra essersi ridotto a un diligente esecutore di sentenze già decise in alto, a priori. Proprio come le famose “trojke” del sistema extragiudiziario di sovietica memoria.
È proprio il constatare la deliberata rinuncia a ogni elementare principio di giustizia a far scattare il sentimento di vergogna che oggi attanaglia tutti: “Vergogna. Una vergogna che ti fa vergognare di vivere” ha detto Njuta Federmesser, una delle donne più amate e stimate in Russia, che ha creato una rete di hospices per malati terminali in tutto il paese. “Memorial è una delle iniziative più nobili del paese. Memorial è la memoria. La memoria non la si può liquidare, non la si può uccidere. Non abbiamo un sistema giudiziario. Nessuno, nessuno, né le persone semplici, né i dirigenti del paese, nessuno crede nell’autorità giudiziaria in Russia. Tutti la odiano e ne hanno paura. No, non ne hanno paura. La disprezzano. La odiano e la disprezzano”.
Ha giustamente osservato Lev Ponomarev, fisico–matematico che a suo tempo aveva lasciato il mondo accademico per lavorare a Memorial: “Siamo di fronte a una svolta. Ora non possiamo che cadere sempre più in basso, verso il totalitarismo… Non so come andranno avanti le repressioni in Russia, ma certo non rinunceranno a tirare la corda fino in fondo. Non so che cosa voglia ottenere il potere. Ma così il paese andrà a picco”.
Non siamo di fronte a un conflitto puramente politico, anche se la classe al potere lo fomenta nella sua folle paura di ogni possibile opposizione. Sono in gioco la verità storica, la memoria, l’identità della società civile, la statura umana di un popolo, il suo stesso futuro, e proprio per questo Memorial oggi consegna in qualche modo il testimone alla società civile. E c’è chi già comincia a intravvedere un compito, una possibilità di costruzione.
Ha scritto un giovane politico di opposizione, Dmitrij Gudkov: “…Ma la memoria non riusciranno a distruggerla, come non riusciranno a far passare per criminali i detenuti politici agli occhi della società. Che ci abbiano dichiarato guerra a oltranza, non è una novità. Ma sulla lunga distanza saremo noi a vincere: loro non ce la faranno”. E ancora, la scrittrice Ljudmila Ulickaja: “Memorial continuerà comunque a esistere – come sotto il potere sovietico c’era il samizdat. Ed era un fenomeno possente, fortissimo. Evidentemente questa politica delle autorità spingerà questo movimento dedicato alla memoria dei nostri padri nella stessa situazione del samizdat. Ma non credo che si riuscirà a eliminarlo. C’è troppa gente che ha una coscienza, ha una memoria e non ha nessuna voglia di calpestare il proprio passato”.
Di Memorial – anche se continuiamo a sperare che le cose possano cambiare, che possano intervenire fattori in grado di salvaguardare il suo lavoro e la sua esistenza – resterà e produrrà frutto ciò che ciascuno di noi avrà il desiderio e l’esigenza di far vivere, attraverso di sé, nei propri ambiti di vita, nel tessuto della società.
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