L’edizione 2021 del convegno di Russia Cristiana ha acquistato in questi ultimi giorni un’attualità che forse i suoi organizzatori non si erano immaginati. Il tema “Persona, società, Stato. Dall’Est all’Ovest, in ascolto di esperienze inattese che ri-dicono l’io”, che ha riunito insieme interventi teorici e testimonianze e storie particolari sta trasformandosi in una sfida che ci tocca da vicino. A chiamare in causa l’io di ciascuno sono oggi, in particolare, le terribili scene a cui assistiamo sui confini tra Bielorussia e Polonia, l’uso cinico e spregiudicato di uomini e donne, vecchi e bambini usati come ostaggi da regimi politici che poco hanno da invidiare ai totalitarismi del XX secolo: davanti a queste immagini quotidiane dobbiamo purtroppo prendere atto ancora una volta che le violenze, a proposito delle quali in tanti ci eravamo detti “questo non dovrà più succedere”, in realtà continuano a succedere, e non solo chissà dove, ai confini del mondo civile, ma anche nel cuore dell’Europa. Sul confine tra due paesi che per definirsi si sono spesso fatti chiamare “crocevia d’Europa”.



Se si parla di Bielorussia, tuttavia, occorre fare un distinguo importante: i soldati che spingono i migranti verso il filo spinato del confine, dove li attendono altri soldati armati di tutto punto, non rappresentano il popolo. Già da un pezzo il popolo sta combattendo una battaglia quotidiana, fabbrica per fabbrica, cortile per cortile, casa per casa, contro un potere che ormai non rappresenta più nulla e nessuno oltre a se stesso. “Esperienze inattese che ridicono l’io”, in Bielorussia ne incontri a ogni piè sospinto, e le luci verdi nelle case che offrono un ristoro alla gente accampata nei boschi gelidi ne sono semplicemente un simbolo.



Un simbolo che interpella anche noi uno per uno, come ha sottolineato venerdì 12 novembre papa Francesco ad Assisi, ricordando altre barriere, altre emarginazioni (“non dimentichiamo che la prima emarginazione di cui i poveri soffrono è quella spirituale”), ed esortando “a metterci a disposizione gli uni degli altri, ad aprire il cuore, per rendere la nostra debolezza una forza che aiuta a continuare il cammino della vita, per trasformare la nostra povertà in ricchezza da condividere, e così migliorare il mondo”.

Certo meno immediato, ma probabilmente non meno grave è un altro fatto che, al contrario, è stato segnalato dalla stampa italiana solo di sfuggita: il serio rischio che le autorità federali russe chiudano definitivamente la bocca a Memorial, la prima associazione pubblica indipendente nata nel 1989, sotto la guida dell’accademico Andrej Sacharov, da un gruppo di persone che si erano ripromesse di fare di tutto perché la memoria del passato impedisse il ripetersi di nuovi orrori.



Un pugno di uomini, di “io”, che nell’arco di questi 30 anni si sono trasformati nella coscienza e nel simbolo della società civile in Russia. “È stato grazie a Memorial che milioni di familiari delle vittime del Gulag hanno potuto sapere che fine avevano fatto i loro cari” ha scritto Anna Zafesova. “Memorial ha aperto gli archivi, ritrovato fosse comuni, e messo a disposizione di tutti la banca dati più completa di tutti i fucilati, processati, deportati e imprigionati. Memorial ha ottenuto per le vittime delle repressioni e i loro discendenti risarcimenti e benefit del welfare, ma soprattutto gli ha restituito il diritto di cittadinanza, dopo decenni di silenzio. Ma Memorial non è solo memoria: la prima manifestazione che ha organizzato è stata quella contro il massacro di Tiananmen, nel 1989, e non si contano gli interventi sul campo, le denunce e le indagini sulle violazioni dei diritti umani durante la guerra in Cecenia e in Ucraina, nelle carceri russe, nei confronti delle minoranze, etniche, sessuali, religiose”.

Senza sapere del procedimento penale che sarebbe stato innescato una settimana dopo, al convegno di Russia Cristiana ha partecipato una collaboratrice di Memorial, Irina Šerbakova, che ha parlato dell’attualità dei valori proposti alla società sovietica dal dissenso – in primo luogo il valore della persona, la sua libertà e responsabilità di fronte alla realtà e alla storia – e ha enucleato alcune linee di continuità e discontinuità esistenti fra il dissenso degli anni 60-80 e gli attuali movimenti presenti nella società civile. Al breve periodo di “eroicizzazione” dei protagonisti del “pensiero alternativo” agli inizi della perestrojka, la Šerbakova ha fatto notare il rapido subentrare, nella seconda metà degli anni 90, di una mentalità che li faceva “sembrare antiquati e ridicoli. E quanto più la nostra società si sentiva delusa dalla democrazia – ha sottolineato la relatrice – tanto più fuori luogo sembrava il dissenso: tutto ciò che erodeva le salde strutture statali è passato bruscamente di moda”.

Oggi, tuttavia, le cose stanno cambiando: il crescente interesse per il movimento del dissenso, che si osserva soprattutto tra i ricercatori più giovani e gli attivisti civili, “è collegato – ha proseguito Šerbakova – alla percezione della sempre crescente violenza statale, alla consapevolezza, cioè, di vivere in uno Stato senza diritto, uno Stato di polizia”. La relatrice ha parlato di un’escalation di violenza superiore a quella usata “contro i dissidenti ai tempi di Brežnev. Oggi contro gli oppositori politici il potere usa qualunque mezzo, dalle false accuse in base ad articoli di diritto penale fino a un ampio uso della tortura”; ha parlato anche di una “propaganda ben più aggressiva, che inventa figure di agenti stranieri prezzolati, nemici interni e quinte colonne”.

Di qui l’esigenza di basarsi sull’esperienza di varie forme di resistenza, soprattutto in una situazione forse analoga, come percezione, all’epoca brežneviana, quando sembrava che non ci fosse da sperare in possibili cambiamenti a breve scadenza. E nel contempo, ha ricordato Šerbakova, non bisogna dimenticare le “parole di Andrej Sacharov, che negli anni 70, rispondendo a un giornalista straniero, disse che nei decenni a venire non si aspettava alcun cambiamento nel paese, ma poi aggiunse: ‘ma chissà, forse la talpa della storia sta scavando senza che ce ne accorgiamo’”.

La “talpa della storia” può essere ancor oggi l’io, questo strano, esile protagonista della storia, apparentemente così disarmato di fronte alle gigantesche proporzioni dei conflitti che oggi incombono? Le reazioni dell’opinione pubblica a cui assistiamo in questi giorni, di fronte al rischio di liquidazione di Memorial, sembrano confermarlo: sono state raccolte oltre 300mila firme, decine di esponenti del mondo accademico, culturale e artistico, e perfino di organizzazioni nell’orbita del Cremlino come il Consiglio per i diritti umani presso la presidenza, hanno chiesto di revocare il provvedimento. Memorial si è rivelato ancor oggi un simbolo della società civile in Russia, come hanno scritto i suoi collaboratori nell’appello pubblicato sul sito: “Memorial non siamo noi, ma noi e voi tutti insieme, e la nostra causa comune”. 

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