In questi giorni si tiene in Giappone il vertice dei ministri degli Esteri del G20, un’occasione per mettere a confronto Cina e Stati Uniti in attesa di un accordo sui dazi. Non sarà certo l’unico tema di un confronto che coincide con le elezioni di Hong Kong, nel momento più drammatico nella storia dell’ex colonia britannica. Per non parlare delle altre partite che stanno infiammando un pianeta che sta riscoprendo la strada della protesta: Teheran, Baghdad, Santiago del Cile, Ecuador e Bolivia, ma anche Il Cairo così come, per guardare al Vecchio Continente, Parigi, Barcellona o Londra, agitata dal confronto sulla Brexit.
Occasioni per confrontarsi, insomma, non mancano. Peccato che il ministro degli Esteri italiano non abbia trovato un posto nella sua ricca agenda per rappresentare gli interessi del Bel Paese. Eppure dai colloqui di Nagoya, in particolare da quelli informali, potrebbero maturare contatti e opportunità che meriterebbero di essere esplorati. E non sarebbe male far sentire, una volta tanto, la nostra voce senza subordinare la nostra presenza a considerazioni di mera politica interna. O di breve termine.
È quel che sembra emergere dal dibattito sul Mes, il Meccanismo di stabilità che divide da una parte sovranisti (e 5 Stelle) ostili alla riforma e dall’altra resto della maggioranza dove prevale un atteggiamento di cautela: sì alla riforma purché sia abbandonato il principio della “ponderazione zero” per i titoli di Stato, “il vero pericolo per il nostro Paese” come ha detto ieri Luigi Marattin, braccio destro di Matteo Renzi riferendosi alle pressioni tedesche per indurre le banche ad accantonare capitale di riserva a garanzia dell’esposizione ai debiti sovrani dei propri paesi.
La partita è senz’altro molto complessa. E le acrobazie, spesso volute, delle burocrazie francese e tedesca sembrano fatte apposta per irrigidire il dibattito (magari a nostro danno). Non ultimo perché il nuovo Mes, una vera Spa in cui solo Francia e Germania dispongono di un potere di veto, potrà subordinare gli interventi di soccorso finanziario ad alcuni requisiti, tra cui l’indebitamento e, soprattutto, l’esposizione delle banche del Paese ai propri titoli di Stato che per noi rappresentano condizioni capestro. Per giunta, le condizioni delle banche tedesche, retrocesse da Moody’s pochi giorni dopo il disinvolto salvataggio di un istituto da parte di una società a partecipazioni statale (come non è consentito da anni all’Italia), inducono alla tentazione di respingere in toto una camicia di forza che rischia di imporci sacrifici insostenibili.
Ma, d’altro canto, la riforma nasce da un intento ben preciso: consentire un passo decisivo sulla via dell’unione bancaria che permetta, tra l’altro, la nascita di banche europee in grado di sostenere il confronto con quelle Usa e cinesi, un prerequisito per competere a livello globale sviluppando una tecnologia all’altezza delle ambizioni del Vecchio continente. Per raggiungere questi obiettivi, però, occorre fiducia nei vicini. Di qui la scelta di dotare il Mes di una prima forma, seppure limitata, di condivisione dei rischi tra i paesi della zona euro. Certo, si tratta di un meccanismo limitato: la garanzia comune, secondo la riforma, scatterebbe solo dopo l’intervento nazionale, lasciando ai custodi (tedeschi) dell’Esm un grande potere. “Ed è su questo fronte che il Governo italiano dovrebbe dare battaglia”, sostiene Massimo Bordignon, membro dello European Fiscal Board. Ma anche su altri fronti.
Noi non siamo in grado di sostenere un sistema di contenimento del rischio che imponga accantonamenti a fronte dei titoli pubblici in magazzino per noi insostenibili o, peggio, una rapida riduzione dello stock di Bot e Btp. Ma non sarebbe insensato concordare una graduale riduzione della dipendenza dai titoli pubblici. Così come l’impegno per una vera riduzione del debito. In assenza di un impegno politico in tal senso, rassegniamoci: la fiducia dei partner sarà sempre limitata. Così come la nostra sovranità.