Negli ultimi giorni si fa un gran parlare dell’intervista in cui Reinhold Messner – la trovate cliccando su queste parole – si dice deluso dai suoi figli, ritenendo un errore la decisione di donare loro l’eredità prima della morte; una tesi abbracciata oggi anche da Claudio Risé (giornalista e psicologo) in una breve riflessione pubblicata sulle pagine del quotidiano La Verità; partendo però dalle parole dell’avvocato Annamaria Bernardini De Pace.



Quest’ultima – “una tigre del foro” secondo Risè – intervistata da Candida Morvillo pochi giorni fa ha apertamente commentato il caso Messner sottolineando (peraltro ripetendo le parole dello stesso alpinista oggi 80enne) che “la donazione in vita è una scelta da non fare mai” perché la conseguenza è che “i figli (..) poi se ne fregano e non ti assistono”: parole che secondo il giornalista e psicologo altro non sono che “la verità“; mentre la redazione del Corriere “il giorno dopo” ha tirato in causa la “voce tranquillizzante [di] un candidato al Premio Strega che ha [sgridato] Bernardini”.



Claudio Risé: “Il caso Messner espone il colossale equivoco della nostra società”

Entrando nel vivo della sua riflessione Claudio Risé ci tiene a precisare che – almeno dal conto suo – Bernardini “rivela (..) il colossale equivoco del nostro mondo occidentale moderno, e degli aspetti della cultura familiare che con esso si identificano”; ovvero “il Bene con i soldi e le proprietà”, mentre nella realtà dovrebbero essere “il lavoro, le opere e i rifiuti”, accompagnata da una imprescindibile “educazione alla misura, alla ricerca del senso personale dell’esistenza, dall’aiuto a chi ha meno di te, del rispetto per la privazione come strumento di apprendimento e forza”.



Private di questi aspetti fondamentali “le donazioni paterne – continua Risé tornando a Messner – rischiano di essere addirittura non solo tristi per i padri, ma tossiche per i figli” in una sorta di “oscura potenza della ricchezza e della sua distruttività”, soprattutto se “non viene costantemente benedetta e ripulita nelle ben più potenti forze spirituali“. Chiudendo sostiene che “l’operosità paterna deve impegnarsi ad aiutare i figli a sviluppare la loro”, perché differentemente diventerebbe “un’operazione invadente e insieme protagonistica” con l’unico esito che “anziché valorizzare le risorse (..) confonde gli spazi rispettivi di padri e figli”.