Il 9 luglio scorso, le agenzie di stampa hanno riportato una breve notizia: il Parlamento Europeo ha rinnovato al Nicaragua la richiesta di estradizione per Alessio Casimirri, ex membro delle Brigate rosse, che “continua a vivere a Managua sotto la protezione del governo nicaraguense e che deve scontare in Italia sei ergastoli, cui è stato condannato in via definitiva per il suo comprovato coinvolgimento nel sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, ex primo ministro e presidente della Democrazia cristiana, e per l’assassinio degli agenti della scorta, fatto accaduto il 16 marzo 1978 a Roma”. Questo è l’atto più recente di un processo riavviato dalla seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro – presieduta dall’onorevole Fioroni e terminata nel dicembre 2017 – che ha riportato all’attenzione delle autorità politiche le figure dei due latitanti noti della strage di via Fani: Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono.



Secondo la ricostruzione ormai consolidata, entrambi partecipano all’agguato di via Fani mettendo trasversalmente lungo la carreggiata una Fiat 128 bianca allo scopo di bloccare il traffico dalla parte alta di via Fani e proteggere il gruppo di fuoco dell’agguato; inoltre, secondo alcune testimonianze, come vedremo, presero addirittura anche parte attiva nell’eliminazione della scorta.   



Lojacono riuscì a espatriare grazie all’aiuto dei genitori, in particolare della madre di cittadinanza svizzera, e del padre, che secondo quanto dichiarato dallo stesso Lojacono, in una sua intervista al Corriere della Sera del 22 ottobre 2000, gli procurò, tramite suoi contatti nel Pci, la possibilità di fuggire in Algeria, prima tappa per poi arrivare in Svizzera, dove vive tuttora e dove ha preso la cittadinanza. In Svizzera è stato condannato a 17 anni di carcere per il delitto Tartaglione, di cui ne ha scontati 11, per buona condotta. Non è mai stato condannato per la partecipazione alla strage di via Fani. La legislazione svizzera non consente né l’esecuzione in Svizzera delle pene comminate all’estero, né la consegna della richiesta dell’estradizione, a meno che non vi consenta l’interessato, che ha rifiutato di farlo.



Per quanto riguarda Casimirri, la Commissione ha compiuto una complessiva revisione della sua posizione, avviando con il ministero degli Esteri un nuovo processo di richiesta di estradizione verso il Nicaragua, in modo formalmente corretto. La Commissione ha soprattutto condotto delle indagini molto approfondite, allo scopo di inquadrare in modo più consistente il ruolo di Casimirri nella vicenda Moro. Le sue responsabilità emergono, per la prima volta, sulla base delle dichiarazioni rese da Morucci nel maggio 1987, nell’ambito del processo Moro ter, quindi a distanza di ben nove anni dal sequestro, guarda caso, solo dopo che la sua presenza era stata segnalata in Nicaragua un anno prima.

Dopo la strage di via Fani, Casimirri ha l’incarico di nascondere le armi che sono successivamente consegnate a Raimondo Etro. Dopo aver partecipato ad altre azioni brigatiste, abbandona le Br nel corso del 1980, insieme alla moglie Rita Algranati, anche lei coinvolta nell’agguato di via Fani. In seguito se ne perdono le tracce fino al 1986, quando viene segnalato in Nicaragua.

La scoperta della localizzazione di Casimirri in Nicaragua avviene in modo del tutto fortuito. Casimirri aveva contratto un nuovo matrimonio a Managua il 17 dicembre 1983 sotto il falso nome di Guido Di Giambattista, con la cittadina nicaraguense Mayra De Los Angeles Vallecillo Herrera. Il 29 aprile 1986, la Vallecillo si presentò presso l’Ambasciata italiana per denunciare il comportamento violento e minaccioso di suo marito, che, “secondo il certificato di matrimonio esibito” era il cittadino italiano Guido Di Giambattista. La stessa Vallecillo dichiarò che si trattava però di un nome falso e che suo marito doveva identificarsi con il latitante Alessio Casimirri. 

Le attività svolte dalla Commissione hanno portato a numerose acquisizioni rispetto a un terrorista che è riuscito a scampare all’arresto in Italia attraverso una serie di passaggi spesso poco chiari, che evidenziano l’esistenza di forti protezioni in Nicaragua e di possibili appoggi anche in Italia.

La Commissione ha in particolare approfondito tre aspetti: la vicenda dell’esistenza di un cartellino fotosegnaletico di Casimirri datato 4 maggio 1982; le modalità di fuga e la latitanza di Casimirri; la missione del Sisde nel 1993 in Nicaragua, quando Casimirri fu contattato da due funzionari del Servizio per trattare il suo rientro in Italia.

Il cartellino fotosegnaletico del 4 maggio 1982

Nell’ambito di accertamenti, delegati alla polizia dalla Commissione Moro 2, finalizzati a comparare le impronte digitali repertate sulla Rénault 4 nella quale fu ritrovato il corpo di Aldo Moro e non ancora attribuite, con quelle di brigatisti o, comunque, di soggetti segnalati, è stato rinvenuto, tra la documentazione dell’Arma dei Carabinieri di Roma, un cartellino fotosegnaletico intestato ad Alessio Casimirri che risulta compilato il 4 maggio 1982. Al cartellino è apposta una foto – solo frontale – che presenta Casimirri in età sicuramente giovanile e senza barba né baffi. L’esistenza di questo cartellino, in precedenza non nota, è ovviamente apparsa meritevole di approfondimento, poiché non risulta che Casimirri sia mai stato arrestato né fotosegnalato: ricordiamo che alla data 4 maggio 1982 era già colpito da più mandati di cattura. Pertanto, ad un eventuale fotosegnalamento, sarebbe dovuto seguire un immediato arresto. Lo stesso cartellino riporta tuttavia, come motivazione del segnalamento, “arresto”. Secondo la relazione finale della Commissione, sono due le alternative possibili:

“O si verificò effettivamente un fatto abnorme: un arresto di Casimirri, con un suo successivo rilascio, che gli diede la possibilità di sottrarsi a due mandati di cattura e di proseguire la latitanza. Oppure il cartellino riporta impronte digitali non di Casimirri e fornisce informazioni non veritiere sull’arresto e sulla data di redazione dello stesso cartellino. Ciò peraltro pone la questione di quali motivazioni possano aver condotto a redigere un documento che attesta una cattura, in realtà mai avvenuta, di un brigatista latitante e possano aver indotto a conservare agli atti di archivio del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma un documento falso”.

Tutte le possibili spiegazioni presentano comunque, profili di notevole gravità: indagini su questo fatto così anomalo e poco chiaro, sono tuttora in corso.

Un profilo “tipico”

Casimirri, militante di Potere operaio vicino a Morucci e Savasta, entrò nelle Br tra la metà del 1976 e l’inizio del 1977. Al pari di altri estremisti di sinistra, a quella data era già stato oggetto di numerosi provvedimenti: dal 1972 al 1975 fu denunciato per tentata violenza privata nei confronti di un militante di destra, segnalato quale responsabile, in concorso con altri, di violenza privata nei confronti di un militante di destra, segnalato per una rapina-esproprio alla Standa, infine inquisito per attacchi alle sedi del Msi. Il curriculum di Casimirri è dunque quello tipico dei militanti di Potere operaio che, dopo aver compiuto un apprendistato criminale nell’ambito dei conflitti con i movimenti di estrema destra sotto la guida di Morucci, Seghetti e degli altri responsabili dell’ala militare del Movimento, transitarono nella Colonna romana delle Brigate rosse, costruitasi attorno agli ex di Potere operaio e delle Fac (Formazioni comuniste armate).

A caratterizzare il profilo di Casimirri rispetto ad altri militanti è la sua estrazione sociale più elevata. È infatti noto che il padre Luciano è stato capo ufficio stampa dell’Osservatore Romano e responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI; la madre ha cittadinanza vaticana. Dagli atti acquisiti dalla Commissione, risulta inoltre che, anche in questa fase in cui era oggetto di segnalazioni e denunce, Casimirri acquistò due pistole sportive, entrambe regolarmente denunciate. Essendo Casimirri, come la moglie Rita Algranati, un “irregolare” (ovvero non in clandestinità), egli condusse diverse attività di tipo lavorativo. Il 14 marzo 1977 registrò con la moglie alla Camera di commercio di Roma la società in nome collettivo “A & C.”. Come molti altri ex militanti di Potere operaio, Casimirri fu controllato durante il sequestro Moro. Il 3 aprile 1978 fu oggetto di perquisizione, senza esito, da parte dei Carabinieri. Il rapporto della perquisizione, che riguardò Alessio e Luciano Casimirri e Marino Clavo (anni più tardi fra i responsabili per il Rogo di Primavalle), riferisce che la perquisizione diede esito negativo, sia con riferimento all’abitazione di famiglia, sia dell’abitazione dove Casimirri effettivamente risiedeva.

Da quanto successivamente accertato, in particolare dalla sentenza di Corte d’Assise del Moro ter, Casimirri e Algranati “rimangono in questa struttura brigatista (Fronte della Contro), ideando, proponendo e quasi sempre compiendo tutti i più gravi reati del tempo fino all’autunno del 1979, quando Casimirri viene inviato a Napoli per la costituzione ed organizzazione della Colonna napoletana e l’Algranati viene cooptata, per un breve periodo, sembra per un mese, nella direzione della Colonna romana”. In particolare, la partecipazione dei due brigatisti è stata riconosciuta per l’attentato a Emilio Rossi, l’attentato Perlini, l’attentato a Publio Fiori (solo la Algranati), l’omicidio Palma, l’omicidio Tartaglione, gli omicidi Mea e Ollanu (Piazza Nicosia), l’omicidio Varisco, nonché per la strage di via Fani e l’omicidio Moro.

Casimirri e Algranati, come molti altri membri della colonna romana, abbandonarono le Brigate rosse all’inizio del 1980. Proprio in quel periodo, il 12 gennaio 1980, Casimirri versò presso la stazione Carabinieri di Castelnuovo di Porto le armi da lui detenute. Appare certamente singolare che Casimirri si sia assunto questo rischio, senza aver compiuto prima una qualche verifica sul fatto che non esistessero a suo carico provvedimenti in relazione ai delitti già compiuti.

Le gravi responsabilità di Casimirri emersero progressivamente all’inizio del 1982, sulla base delle convergenti dichiarazioni di una serie di pentiti. Su questa base, fra febbraio e novembre 1982, vengono emessi – dai Tribunali di Roma e di Napoli – diversi mandati di cattura per partecipazione a banda armata, per associazione sovversiva e banda armata, per insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Le ultime tracce accertate della presenza di Casimirri a Roma risalgono al 17 febbraio 1982, ovvero un giorno dopo che il giudice Domenico Sica aveva spiccato l’ordine di cattura nei confronti di Casimirri e Algranati. Infatti, il 17 febbraio 1982, i due si presentarono dal loro datore di lavoro, Alfredo Vaiani Lisi, titolare della società “Sperimentazione didattica”, che forniva insegnanti di educazione fisica a istituti religiosi, per ritirare alcune loro spettanze economiche. Da quel momento in poi, le ricerche di Casimirri furono intense, con l’attivazione di un servizio di intercettazione e numerosi appostamenti e ricerche nei luoghi frequentati da Casimirri, ma nei fatti, senza esito.

Accertamenti sulla latitanza

Allo stato non esiste alcuna certezza sul momento in cui Casimirri lasciò l’Italia, né sulle modalità in cui lo fece, né sulle eventuali complicità di cui poté giovarsi. Lo stesso Casimirri ha fatto diverse dichiarazioni ai giornali in proposito (Famiglia Cristiana nel 1988 e l’Espresso nel 1998). Naturalmente, queste interviste contengono affermazioni ambigue o anche palesemente inattendibili. In diverse occasioni, ha comunque affermato di essere stato per un primo periodo a Parigi. Il passaggio a Parigi appare sicuramente in linea con le pratiche che allora e anche successivamente caratterizzarono i terroristi italiani di sinistra, ma, proprio perché la fuga in Francia costituiva una soluzione largamente praticata, nulla impedisce che i resoconti affidati da Casimirri ai giornali siano una delle tante manovre di depistaggio che egli ha posto in opera nel corso degli anni. Sono state fatte approfondite indagini sul passaporto falso usato da Casimirri. Allo stato attuale, l’ipotesi più probabile risulta essere quella dell’uso del passaporto di Guido Di Giambattista – l’autentico titolare che ne dichiarò il furto – con la semplice sostituzione della fotografia.

Casimirri è in Nicaragua verosimilmente qualche tempo prima del dicembre 1983 – data del suo matrimonio – dove gode da subito di una posizione di impunità in ragione dei suoi stretti legami con i sandinisti ed in particolare con il leader Daniel Ortega. La sconfitta elettorale dei sandinisti, nel 1990 ed il conseguente cambiamento del clima sociale e politico nel paese portano però l’ex brigatista a considerare l’ipotesi di trattare il suo rientro in Italia. Nel 1993 si arriverà ad un incontro riservato con alcuni agenti segreti italiani del Sisde. Cosa rilevò Casimirri agli agenti del Sisde e perché la trattativa per il suo rientro fallì?

(1 – continua) 

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