Un altro aspetto che la commissione Fioroni sulla vicenda Moro ha ripreso ed approfondito, arrivando ad un nuovo e più completo quadro interpretativo, è il percorso svolto da Morucci e Faranda, dal loro rapporto con gli ambienti di Potere operaio nella fase del sequestro Moro, alle trattative dell’aprile/maggio 1978, alla loro fuoriuscita dalle Brigate rosse fino all’arresto del 29 maggio 1979. La commissione ha ripreso la tematica a partire da una rilettura complessiva degli atti acquisiti dalle precedenti Commissioni e da nuove acquisizioni documentali e testimoniali. Tutto questo complesso intreccio di rapporti che viene così delineato permette di far luce da una parte su quel mondo contiguo alla lotta armata che però intrattiene anche rapporti con il mondo politico; e dall’altra sulle lacerazioni interne all’organizzazione terroristica stessa, tutt’altro che monolitica.
Sin dall’inizio del sequestro Moro, le Br appaiono caratterizzate da una dialettica tra il comitato esecutivo, guidato da Moretti, e un’area “romana” che trova in Faranda e Morucci i suoi esponenti di punta ed è legata a un più vasto “partito armato” in cui si incontravano esponenti di Potere operaio e del Comitato comunista Centocelle, formazione già guidata da Valerio Morucci. In particolare, nel periodo del sequestro e in quello immediatamente successivo, il gruppo di Morucci appare legato a un’area di contiguità, già protagonista, nei primi anni 70, di esperienze politiche estremistiche. Tale area poteva vantare non trascurabili contatti nel mondo politico, che del resto furono attivati nel corso del sequestro Moro. La dialettica interna alle Br era legata a diversi motivi, dal rapporto con la conflittualità sociale e i movimenti del 77 a una sorta di competizione interna.
Tutto questo intreccio di rapporti è di notevole importanza per comprendere gli eventi del sequestro, le trattative e la successiva costruzione di una “verità parziale” su di esso.
Un primo elemento, che è stato approfondito, è quando si aprì, all’interno del gruppo che gestì il sequestro Moro, una dialettica sulle trattative e poi sulla decisione di uccidere l’ostaggio. In proposito Morucci e Faranda hanno – retrospettivamente – accreditato la tesi che la scelta di alzare il livello dell’attacco allo Stato con il rapimento di Moro fu da loro osteggiata già prima degli eventi. Naturalmente, occorre amaramente osservare che essi non erano mossi dal rispetto per la vita umana, ma semplicemente da un diverso calcolo politico-ideologico.
Nel corso del sequestro, inoltre, Morucci e Faranda furono i referenti dell’iniziativa portata avanti dalla segreteria del Partito socialista per una trattativa che consentisse la salvezza di Moro. Morucci operò a sostegno di tale ipotesi, sulla base di una valutazione politica sull’indebolimento dello Stato che ne sarebbe conseguito.
La trattativa socialista è stata più volte analizzata sin da quando, nel 1979, emerse pubblicamente la sua esistenza, anche in interventi pubblici di numerosi interessati. Prendendo le mosse dal lavoro della Commissione stragi, la Commissione Fioroni ha approfondito la vicenda sia tramite attività di indagine, sia tramite una serie di audizioni, in particolare quelle di Gennaro Acquaviva, di Claudio Signorile e di Umberto Giovine. Il quadro che ne risulta può essere sommariamente così riassunto. Il tentativo di avviare una trattativa da parte del Psi si sviluppò probabilmente dall’inizio di aprile, si rafforzò soprattutto dopo il comunicato n. 7 del 20 aprile, che dichiarava che il rilascio del prigioniero Aldo Moro poteva essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di “prigionieri comunisti”.
La presa di posizione del Psi in favore di un’autonoma iniziativa dello Stato portò a ricercare contatti in due principali direzioni. In entrambi i casi, tuttavia, esisteva un riferimento diretto all’onorevole Craxi, segretario del partito. La prima direzione, “milanese”, sembra essersi sviluppata grazie all’iniziativa di Walter Tobagi e puntava a realizzare, tramite l’avvocato Giannino Guiso, un rapporto con i brigatisti in carcere, come Curcio e Franceschini, in modo da ottenere una presa di posizione pubblica degli stessi e una pressione “interna” sui sequestratori. La seconda, essenzialmente “romana”, fu realizzata prevalentemente tramite Claudio Signorile e si indirizzò verso gli ambienti dell’ex Potere operaio (Franco Piperno, Lanfranco Pace).
Il calcolo politico era, in questo caso, fondato perché diverse componenti dei “movimenti” avevano espresso anche attraverso I Volsci, mensile dell’Autonomia romana, e Lotta continua, posizioni favorevoli a una trattativa sulla vita di Moro, nella consapevolezza che questa avrebbe consentito di porre la questione dei “detenuti” e di massimizzare la vittoria ottenuta con il rapimento.
Dalla ricostruzione offerta da Claudio Signorile emergono inoltre due ulteriori elementi di rilievo. In primo luogo, il ruolo dell’area che Piperno tentò di egemonizzare nel periodo a cavallo del sequestro Moro. In quella fase, tale area, che funge da tramite tra socialisti e Brigate rosse, non appare un soggetto terzo, ma piuttosto l’espressione di un’autonoma posizione di “partito armato”. A causa delle carenze di testimonianze univoche, la vicenda della trattativa rimane ancora in parte non conosciuta nel suo concreto dipanarsi. Alla luce di quanto accertato in sede giudiziaria e nelle precedenti inchieste, appare evidente che Piperno e Pace cercarono di orientare verso una soluzione non cruenta della vicenda Moro, sia per la convinzione che l’uccisione di Moro sarebbe stata disastrosa per l’area che essi esprimevano e i suoi addentellati nella società civile, sia anche per l’aspirazione a una sorta di “egemonia” sull’estremismo politico. Il secondo elemento è il fatto che la trattativa e i movimenti di Signorile erano ampiamente noti in ambito istituzionale. Questa osservazione naturalmente genera inquietanti domande, visto che tutti i rapporti che si intrecciarono durante la trattativa avrebbero potuto essere seguiti, monitorati e quindi usati per le indagini.
Nell’ultima fase del sequestro Moro, i contrasti precedenti, dentro la colonna romana delle Br, si tradussero in una spaccatura tra Morucci e Faranda, da un lato, e l’ala maggioritaria di Moretti dall’altro. Tale spaccatura è così rappresentata nel cosiddetto “Memoriale Morucci”: “Io ed Adriana Faranda esprimemmo la nostra totale contrarietà alla esecuzione di Aldo Moro. Non essendo quello il momento di riprendere fino in fondo i motivi della nostra contrapposizione politica con l’organizzazione, cercammo di sviluppare argomenti convincenti per far recedere da quella decisione”.
Secondo questa ricostruzione, che naturalmente esprime una specifica posizione di parte, i due sostennero dunque che di fatto le Br avevano già ottenuto molteplici riconoscimenti; che la riduzione della lotta a scontro militare con lo Stato rischiava di risultare perdente e che in ogni caso avrebbe appiattito lo scontro sociale in atto. In sostanza, secondo questa ricostruzione, Morucci e Faranda si opponevano alla linea compartimentata e leninista di Moretti, propugnando un collegamento con forme di ribellismo sociale diffuso, al limite sfocianti in guerriglia urbana. In tale contesto, essi erano favorevoli a una trattativa su Moro, dalla quale – ritenevano – il partito armato avrebbe potuto lucrare risultati più significativi di quelli derivanti dalla sua uccisione.
Era, a ben vedere, una posizione per molti aspetti simile a quella di Piperno e a quella di frange dell’Autonomia. Essa però presentava una debolezza intrinseca: il fatto cioè che Morucci e Faranda non avevano il controllo dell’ostaggio e non mantenevano neppure i legami con le altre colonne. La loro posizione di intermediari era dunque sostanzialmente precaria e, già sul breve periodo, li portò a una marginalizzazione politica.
È stata anche ricostruita la cronologia della fuoriuscita di Morucci e Faranda dalle Br e dei loro tentativi di costruire un autonomo movimento terrorista (Movimento comunista rivoluzionario). Da quanto risulta, già nell’estate 1978 le prospettive del comitato esecutivo delle Brigate rosse e di Morucci e Faranda erano distanti. A fronteggiarsi erano infatti due prospettive diverse, maturate nel sequestro Moro: quella morettiana, fondata su un accentramento militare e una stretta compartimentazione, e quella morucciana, che intendeva allargare lo spazio del terrorismo brigatista verso una più vasta area di conflittualità sociale e di movimenti. Cruciale appare in questo quadro, come era già stato nell’ultima fase del sequestro Moro, il rapporto di Morucci e Faranda con Piperno, Pace e i gruppi, derivati da Potere operaio, che stavano dando vita a un ambizioso progetto di egemonia politico-culturale per il tramite del Cerpet (Centro ricerche di programmazione e pianificazione economica e territoriale) – il centro studi animato da esponenti dell’Autonomia e collegato a esponenti socialisti come Giacomo Mancini e Antonio Landolfi – e di pubblicazioni periodiche come Metropoli (ricordiamo che il numero zero della rivista, nel dicembre 1978, comprende un articolo di Piperno che conteneva la famosa frase sulla necessità di “coniugare la terribile bellezza del 12 marzo 1977 con la geometrica potenza di via Fani”, con riferimento alle manifestazioni dell’Autonomia del 12 marzo 1977 in tutta Italia, dopo l’uccisione dello studente Lorusso a Bologna e alla strage della scorta di Moro in via Fani).
Già nel luglio 1978 si dovrebbe collocare l’incontro tra Moretti (quindi il capo militarista delle Br) e Piperno in una casa alto-borghese del quartiere Prati, nel corso del quale si sarebbe svolto un tentativo di chiarimento. In proposito, Piperno ha dichiarato che in quell’occasione furono affrontati tre punti: le motivazioni per cui era stato ucciso Moro; il fatto che non era intenzione di Piperno e Pace quella di creare “una organizzazione che si ponesse in alternativa o su un terreno di lotta armata”; il dissenso tra Moretti e Morucci e il fatto che le Brigate rosse volevano “avere contezza che non vi fosse nessuno dietro al dissenso di Morucci e Faranda”.
Quando divenne evidente l’intendimento di Morucci e Faranda di uscire dalle Br, in un primo momento l’organizzazione offrì loro una base temporanea a Moiano, del danaro, una pistola e documenti per l’espatrio. Morucci e Faranda fecero invece ritorno a Roma, prelevarono armi e danaro dalla loro base, si diedero alla macchia e si allontanarono formalmente dalle Br nel febbraio 1979 insieme a Massimo Cianfanelli, dopo aver illustrato la propria posizione politica nel documento Fase: passato, presente e futuro. Li seguirono anche altri militanti come Norma Andriani, Carlo Brogi e Arnaldo Maj. In questo modo, la rottura diventa veramente completa e in alcune conferenze dal vivo il presidente Fioroni ha ricordato che in quel periodo Morucci andava in giro per Roma indossando un giubbotto antiproiettile, nella paura di incontrare, sulla sua strada, non tanto la polizia, quanto Moretti.
Già nei primi mesi del 1979 appare chiaro che la prospettiva di un “partito armato” distinto dalle Br faticava a realizzarsi e Morucci e Faranda trovarono ospitalità – per il tramite di Lanfranco Pace – presso Aurelio Candido, grafico del Messaggero e responsabile di Notizie Radicali, amico della giornalista Stefania Rossini, all’epoca collaboratrice del Messaggero e convivente di Lanfranco Pace. Da qui Morucci e Faranda si spostarono, sempre per il tramite di Piperno e Pace, presso Giuliana Conforto, che ottenne in cambio da Piperno alcuni aiuti per la sua carriera accademica. Allo stato degli atti, risulta che Morucci e Faranda sarebbero rimasti a casa di Giuliana Conforto almeno dalla fine di marzo 1979 fino al 29 maggio quando vennero arrestati.
Ma chi era Giuliana Conforto? Come e perché si arriva all’arresto di Morucci e Faranda il 29 maggio 1979? Cosa venne trovato?
(1 – continua)
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