Ogni anno, per l’anniversario della strage di via Fani, il 16 marzo, si torna a parlare del caso Moro, che rimane il punto più drammatico ed oscuro della storia politica e civile del nostro paese. Ormai, nel tempo, si è anche consolidata una narrazione dei fatti che sembra acquisita e data per scontata. Tale narrazione si basa principalmente sul cosiddetto “Memoriale Morucci”, dal nome del brigatista attraverso le cui dichiarazioni tale memoriale sarebbe stato scritto. In esso si racconta come sarebbe avvenuto l’agguato e l’eccidio di via Fani, il racconto del trasbordo del sequestrato verso l’unica prigione di via Montalcini in cui Moro sarebbe rimasto per tutti i 55 giorni e la sua uccisione nel garage dello stesso stabile, prima di portarne il corpo in via Caetani nella Renault 4 rossa dove fu trovato il 9 maggio 1978.



È uno dei dati acquisiti, invece, della seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro presieduta dal presidente Fioroni e terminata nel dicembre 2017, che tale Memoriale è frutto di una collaborazione, attraverso un processo complesso che si sviluppò almeno lungo tutti gli anni 80, fra i brigatisti Morucci e Faranda, apparati dello Stato e altre persone, come ad esempio Remigio Cavedon, direttore del giornale della Dc, Il Popolo. Lo scopo di questo memoriale – in fondo comprensibile, come spesso ha sottolineato lo stesso presidente Fioroni – era quello di ricostruire una storia “dicibile” di quei fatti, che potesse aiutare a chiudere la stagione del terrorismo che aveva insanguinato l’Italia per oltre un decennio.



Ma quella storia era sicuramente piena di omissioni, incongruità e punti problematici. Alcune di queste incongruità sono state già riconosciute ed indicate nel passato dall’autorità giudiziaria. Ma certamente il lavoro della commissione parlamentare Fioroni ha fatto emergere diversi aspetti nuovi e ha contemporaneamente verificato l’infondatezza di molte parti della narrazione corrente.

Va precisato che la Commissione parlamentare non aveva lo scopo di una rivisitazione completa del caso Moro, ma quella del tentativo di “far emergere per quanto è possibile, aspetti non approfonditi o in maniera carente, ed eventuali responsabilità” per giungere a “chiarire diversi, importanti aspetti della vicenda Moro”.



Questo articolo, perciò, vorrebbe aiutare il lettore a familiarizzare con alcuni dei principali nuovi aspetti che il lavoro della commissione ha fatto emergere, e che “stranamente” (ma su questo fatto sarà necessario forse tornare con una riflessione più completa), ancora fanno fatica a diventare patrimonio comune di una nuova e più completa narrazione dei fatti a livello dei mass media e quindi a livello della coscienza civile del paese.

Ricordiamo che i lavori della Commissione Moro 2 sono stati approvati dal Parlamento a larghissima maggioranza: quindi, non ci sono state relazioni di minoranza, non ci sono state contrapposizioni significative, e questo in un contesto politico quanto mai frammentato e diviso.  I lavori sono sintetizzati in tre relazioni del dicembre 2015 , del dicembre 2016 e del dicembre 2017.

Uno dei primi aspetti esaminati ai quali la Commissione parlamentare ha dedicato prioritaria attenzione è stato quello di ricostruire l’esatta dinamica della strage di via Fani, nel tentativo di fare luce sugli aspetti dell’eccidio che – nonostante i numerosi processi – appaiono non del tutto chiariti. I principali risultati di tale lavoro sono stati esposti nella prima relazione del dicembre 2015 e in sintesi anche nella relazione finale del dicembre 2017.   

La strage di via Fani

Ricostruiamo per sommi capi quanto avvenuto il 16 marzo 1978: in questo caso, ci rifacciamo ancora alla narrazione corrente dei fatti per poi paragonarla con le novità emerse.

Poco dopo le 8 del mattino, Moro esce dalla sua casa in via del Forte Trionfale 79 a Roma. Dopo una prima tappa in chiesa per la Messa, le due auto della scorta di Moro, la Fiat 130 con il presidente Moro a bordo insieme all’autista, l’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci e il caposcorta maresciallo Oreste Leonardi e l’Alfa Romeo Alfetta con i tre poliziotti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, riprendono il viaggio verso la Camera dei deputati dove alle 10 è prevista la presentazione del nuovo governo Andreotti, che per la prima volta, dal 1947, vede la maggioranza parlamentare che lo appoggia allargarsi al Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer.

Da via Trionfale, le due auto svoltano su via Mario Fani. Qui vengono leggermente rallentate dal passaggio di una giovane donna che porta dei fiori: è la brigatista Rita Algranati. Il suo passaggio consente alla Fiat 128 giardinetta, con targa diplomatica CD, parcheggiata sul lato destro e guidata da Mario Moretti, di anticiparle.

All’incrocio con via Stresa, l’auto targata Corpo Diplomatico si ferma bruscamente allo stop.

Dietro le due auto della scorta di Moro, si piazza trasversalmente lungo la carreggiata una Fiat 128 bianca con a bordo Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri allo scopo di bloccare il traffico dalla parte alta di via Fani e rispondere ad eventuali attacchi da parte delle forze dell’ordine. Barbara Balzerani, che aspettava in un’auto Fiat 128 blu parcheggiata oltre l’incrocio con via Stresa, si mette al centro dell’incrocio via Fani/via Stresa, con mitra per bloccare il traffico anche nella parte inferiore della scena. Contemporaneamente interviene il gruppo di fuoco, che ad oggi, per il Memoriale Morucci, è composto da Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli.

Tutta l’azione si svolge in circa tre minuti. Al termine, i terroristi prendono Moro e lo fanno salire sul sedile posteriore della Fiat 132 blu con alla guida Bruno Seghetti, che, parcheggiata in via Stresa, si è portata a ridosso dell’auto di Moro con una manovra a retromarcia: su questa auto salgono Moretti e Fiore. Insieme all’auto del sequestrato, le auto Fiat 128 blu della Balzerani e Fiat 128 bianca di Casimirri, che hanno recuperato tutti gli altri componenti del gruppo di fuoco, lasciano rapidamente il luogo dell’eccidio da via Stresa. Queste tre auto saranno poi trovate in via Licinio Calvo.

Le principali novità della Commissione Moro 2 sulla dinamica dell’agguato

Qui di seguito sintetizziamo soltanto le principali novità emerse dalla perizia della Polizia scientifica, che ha potuto applicare le più moderne tecnologie sulla scena di via Fani.

Prima di tutto, mentre l’auto di Moro era ancora in movimento, con colpi singoli, da sinistra rispetto alle due auto, sono stati uccisi il caposcorta Leonardi e l’autista Ricci. E questa prima manovra dimostra una elevata abilità di chi ha sparato. Ricci e Leonardi, nonostante siano espertissimi, non riusciranno neanche a sparare.

Questo primo fatto spiega poi l’andamento delle auto: la Fiat 130 che porta Moro non urta l’auto targata CD: essendo stato colpito a morte, l’autista Ricci perde il controllo dell’auto che a balzi va ad appoggiarsi sulla Fiat 128 guidata da Moretti. L’auto di scorta invece tamponerà la Fiat 130. Questo smentisce il memoriale Morucci che sostiene dei ripetuti tamponamenti con cui l’appuntato Ricci, alla guida della Fiat 130, avrebbe tentato di disimpegnarsi dall’ostacolo costituito dalla Fiat 128 con targa diplomatica, perché bloccato da un presunto tamponamento.

L’aspetto più problematico della Perizia risulta essere quello relativo al fatto che i primi colpi singoli sono stati sparati da sinistra. Tale risultato contraddice la perizia del processo Moro quater, che invece sostiene che “La prevalente direzione dei colpi su Leonardi e Rivera ha un orientamento da destra verso sinistra”.

La ricostruzione della Scientifica evidenzia inoltre che il brigatista in possesso della pistola Smith & Wesson – nella fase finale dell’agguato – si è spostato, girando intorno alle vetture, per portarsi sul lato destro, da dove ha esploso almeno 2 colpi trovati all’interno dell’abitacolo della Fiat 130; questa manovra – molto probabilmente riconducibile alla volontà di accertarsi dell’annientamento della scorta, probabilmente con il “colpo di grazia” – è, invece, sempre stata taciuta. Questo aspetto, già noto, ma ora accertato, ha dato origine a legittime ed inquietanti domande sul perché fosse necessario assicurarsi che nessuno della scorta rimanesse vivo.

Sempre per la perizia, sono stati sparati 93 colpi di arma da fuoco, di cui 2 dal poliziotto Iozzino, l’unico che riesce a tentare una debole reazione. Un’arma da sola sparò 49 colpi, ma è stato dimostrato che ciò avvenne con una precisione non particolarmente elevata: da quell’arma soltanto sei colpi raggiunsero un bersaglio, l’agente Iozzino. Questo sembra mettere definitivamente in discussione l’idea che in via Fani abbia operato un “superkiller”, un professionista.

È però certo che ci fu una “rilevante capacità militare” e questo conferma che esiste un divario eccessivo fra la notevole efficacia dell’attacco e le dichiarazioni fatte dagli stessi protagonisti – ad oggi noti – dell’agguato nel corso degli anni. Tutti, in diverse occasioni, diranno che le loro armi si sono inceppate e hanno perso del tempo per disincepparle, oppure hanno potuto usare solo le pistole di scorta.

Nascono perciò delle domande, a cui le indagini della Commissione hanno dato una prima risposta: quanti erano i brigatisti che parteciparono all’agguato? Chi ha fornito la capacità militare che venne dimostrata?

(1 – continua)

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