Adesso che il sipario è calato sulle date degli anniversari, si può riparlare di Aldo Moro con il rispetto dovuto agli uomini giusti, in Italia inevitabilmente scomodi.

Senza troppo paroleggiare, bisognerebbe dire che Mario Moretti non ha detto tutta la verità e che su due questioni con certezza mente: 1) dove è stato tenuto prigioniero Moro? 2) come e dove è morto Moro?



In ogni delitto, le fasi conclusive dell’esistenza della vittima sono importanti per ricostruire il suo supplizio e le responsabilità dei suoi carnefici. Se mai ve ne fosse stato bisogno (perché molti aspetti erano già chiari ai tempi delle prime indagini giudiziarie e parlamentari), l’ultima Commissione d’inchiesta – quella guidata da Giuseppe Fioroni – ha proprio dimostrato che Moro non è stato tenuto sempre nello stesso luogo (e questo è confermato anche dalle sue lettere, se lette con cura), né è stato ucciso nel garage di via Montalcini come la vulgata processuale ha accreditato.



Sono state due narrazioni a posteriori, lentamente promosse come vere, ad aver accreditato la versione eroica (per i Br) e suppliziale (per Moro) della vicenda.

La prima è la celebre intervista di Moretti a Carla Mosca e a Rossana Rossanda del 1993, poi smentita in aspetti non marginali dal successivo arresto di Germano Maccari, l’ingegner Altobelli del sequestro (e, sia detto per inciso, la sinistra italiana ha sbagliato clamorosamente a non schierarsi con Sergio Flamigni, che denunciò le menzogne, e a tutelare invece l’edulcorato veleno della ricostruzione nobilitata dalla Rossanda).

La seconda è il celebre memoriale Morucci, cioè quella narrazione a più mani costruita nelle carceri, in un rapporto dialettico con le istituzioni, da Valerio Morucci, l’unico vero leader brigatista partecipante all’agguato e al sequestro con una linea esplicitamente opposta a quella di Moretti (l’altro grande oppositore, Alberto Franceschini, era allora in carcere). Anche il memoriale non dice la verità, ma a differenza dell’intervista di Moretti, quella di Morucci è una bugia di “assenso”, non di “pronuncia”, nel senso che Morucci conferma l’ipotesi che le istituzioni confezionano.



Sono convinto che le menzogne non nascondano chissà quali complotti, piuttosto celino quegli aspetti volgari, malvagi, comunemente bassi e profittevoli che hanno sempre accompagnato le fasi esecutive di ogni delitto.

Nessun rivoluzionario ama vedere il suo profilo deturpato dalle brutture dell’agire delinquenziale, dagli accordi con ambienti equivoci, dalla cattiveria di cui occorre pur nutrirsi per riuscire ad ammazzare un uomo, dalle coperture necessarie per non essere scoperti e catturati. Non a caso il tasso di mendacità morettiana aumenta vertiginosamente, nel racconto a posteriori, quanto più ci si avvicina all’esecuzione e al sangue, come, durante il sequestro, era aumentata la sua incertezza di leader, attestata inequivocabilmente dall’ultima telefonata, contraddittoria ed emotiva, alla signora Moro, in prossimità dell’improvvisa ineluttabilità dell’omicidio (deciso da chi, posto che Moretti si avventurava in negoziati telefonici?).

Il problema è su chi dei due superstiti, Moretti e Morucci, lavorare per sapere la verità.

Moretti, se lo Stato lo lascerà tranquillo, non dirà mai più nulla. È riuscito ad accreditare di sé l’immagine del capo sconfitto che porta il peso politico dei morti, ma non quello morale, non più di quanto lo porti un soldato che in guerra, sparando dalla trincea, abbia ucciso un nemico dall’altra parte. Lui e Curcio tengono a collocare le Br dentro la storia rivoluzionaria italiana, senza errori, senza sbavature, senza viltà, perché l’unica cosa che rimane loro è la possibilità che la loro esistenza risulti una storia eroica, titanica, tragica alla greca.

Morucci no, Morucci tace perché non si fida dello Stato, diversamente parlerebbe, perché il suo scopo etico è riconoscersi in un uomo a tutto tondo, senza saldi ignobili a fine corsa. Morucci si è riconosciuto nel suo dire “no” e nel tenersi fuori dalle viltà che accompagnarono l’esecuzione. Ma lo Stato, la sinistra, un pezzo rilevante della Dc, le cialtronissime trame di quanti, nel mondo cattolico, dicevano no alla trattativa pubblica e sì a quella privata, richiedono che la narrazione giudiziaria acquisita si cristallizzi definitivamente, senza revisioni (ciò che sapeva benissimo Cossiga il quale, per suo sfizio personale, fece una sua indagine, seppe come andarono realmente le cose, constatò che non c’era altro che miseria umana e concesse ai Br di continuare a recitare la parte dei combattenti senza infamia, sconfitti dalla storia).

Morucci lo sa e sa che quel che gli resta da vivere è legato al tener bordone a questa finzione. Si faccia finire il teatro e Morucci ragionevolmente racconterà ciò che sa; si continui con le messinscene e Morucci continuerà a recitare a soggetto.

Si vuole che i superstiti dicano la verità? Si dimostri di saperla accogliere (fanno sorridere gli appelli del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio alla verità. A chi si stanno appellando, a se stessi?). Perché la verità storica non è mai a compartimenti chiusi.

Per esempio, c’è anche da dissodare la parte oscura della conservazione e trasmissione delle carte del sequestro Moro e del ruolo che ebbe il generale Dalla Chiesa nel trovarle, leggerle e conservarle. Si ha la forza di capire questo abisso?

L’Italia di oggi non sa neanche cosa sia l’abisso, la dura fatica di percorrerlo, il saper guardare in faccia il male ancorati alla certezza di un perdono che ci sovrasta e rassicura perché posto dentro e oltre le nostre miserie.

L’Italia teme la semplicità e la durezza del vero e si affida agli appelli; fanno bene, per se stessi, Moretti e Morucci a tacere; per noi, affezionati allo stile dell’intelligenza di Moro, resta l’obbligo di resistere e di dire che le loro sono menzogne.