Sei anni di reclusione: è la richiesta fatta dal pubblico ministero di Palermo contro Matteo Salvini per il caso della Open Arms, la nave dell’omonima Ong spagnola alla quale, nell’estate 2019, l’allora ministro dell’Interno aveva impedito l’ingresso nelle acque territoriali italiane in ottemperanza ai decreti sicurezza allora in vigore. Il reato più grave addebitato al leader della Lega è il sequestro di persona, per il quale il codice penale prevede una pena fino a 15 anni di carcere. La procura non ha richiesto il massimo della pena perché probabilmente il vero obiettivo di questo procedimento, che dopo la requisitoria di ieri ha assunto connotazioni di processo politico ancora più accese, è un altro: ottenere una condanna definitiva ad almeno due anni, il che, in base alla legge Severino, renderebbe Salvini incandidabile alle prossime elezioni senza che ciò comporti la decadenza dall’attuale incarico nel governo Meloni.



“Sono a processo perché la sinistra ha deciso che difendere i confini italiani è un reato”, ha ripetuto ieri Salvini richiamando a sostegno della sua azione l’articolo 52 della Costituzione, e ricordando che la Open Arms era salpata da Siracusa diretta a Lampedusa, ma nel corso della navigazione cancellò la destinazione dal diario di bordo e si diresse verso le coste libiche per prendere a bordo 164 migranti alla deriva su un barcone. Secondo Salvini il comportamento della Ong fu dichiaratamente provocatorio: la nave respinse le ripetute offerte di aiuto e di sbarco in porti sicuri giunte da Tunisia, Malta e anche Spagna, il Paese di bandiera della Open Arms che aveva inviato pure una nave militare di soccorso. Era una sfida ai decreti del governo Conte 1 che, in un clima di emergenza senza precedenti, aveva preso provvedimenti eccezionali per frenare gli sbarchi fuori controllo. I decreti Conte-Salvini ebbero un effetto fotografato dai numeri: gli sbarchi crollarono da 42.700 a 8.691. “Non potevamo più essere il campo profughi di tutta Europa”, ha spiegato l’ex titolare del Viminale. Crollarono non solo gli sbarchi, ma anche le vittime.



Quella fase emergenziale era tutta particolare, nulla a che vedere con quanto accaduto prima di allora e dopo. I decreti sicurezza ponevano un principio chiaro, sia pur criticabile come ogni decisione politica: l’accoglienza va di pari passo con la redistribuzione dei migranti accolti. All’epoca il disinteresse dell’Ue era pressoché totale, Bruxelles lasciava che fossero i Paesi mediterranei – in particolare Italia e Grecia – a gestire il flusso di disperati che cercavano un futuro affidandosi a organizzazioni criminali di trafficanti di uomini e scafisti senza scrupoli. E in questo lassismo delle cancellerie continentali si erano inserite le Ong. Perfino un teste dell’accusa, l’ex direttore del servizio immigrazione del Viminale Fabrizio Mancini, ha dichiarato in aula a Palermo che le Ong “andavano fuori dalle regole, avevano messo in piedi un sistema alternativo a quello ufficiale”.



Quei decreti furono rapidamente modificati dal governo Conte 2 per volere del capo dello Stato, ma quantomeno servirono a porre con chiarezza anche sui tavoli dell’Ue la duplice questione: la redistribuzione dei migranti e il ruolo delle Ong. I decreti furono un atto politico prima che di ordine pubblico, figlio di quella stagione di emergenza assoluta. Ed è per questo che il processo in corso è politico. Un procedimento per molti versi analogo, quello della nave Gregoretti che coinvolse lo stesso Salvini, è finito a Catania con un non luogo a procedere.

Qui invece la procura di Palermo percorre una strada opposta. Gli argomenti esposti ieri dal pm Calogero “Gery” Ferrara ricalcano quelli dei partiti di sinistra e delle stesse Ong: “Prima si fanno scendere i migranti e poi si ridistribuiscono: altrimenti si rischia di fare politica su gente che sta soffrendo”, ha detto tra l’altro. Appunto: la requisitoria ha messo sotto accusa i decreti e l’azione politica. E l’obiettivo ultimo sarà togliere di mezzo Salvini dalla scena politica.

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