Caro direttore,
la “diplomazia parallela” del leader della Lega Matteo Salvini con la Russia di Putin agita ancor di più le già agitate acque nelle quali faticosamente naviga il governo Draghi. Politicamente tutte le critiche ragionevoli sono ammissibili, perché hanno fondamento nel libero gioco democratico. Possiamo però chiederci – ed è cosa diversa – se Salvini abbia violato delle regole. Vediamo.
In ordine di tempo tutto è nato da uno scoop del giornalista del Domani Emiliano Fittipaldi. Fittipaldi ha rivelato, infatti, che il 1° marzo scorso, nel bel mezzo della prima offensiva russa, l’ambasciatore di Mosca presso il Quirinale, Sergeij Razov, accompagnato da un interprete, ha invitato a cena nella sua residenza di Villa Abamelek il leader della Lega, accompagnato dall’avv. Antonio Capuano, ex deputato di Forza Italia e “consulente” di Salvini, il cui partito – com’ è noto – sostiene il governo e partecipa alla compagine con ben tre ministri. Gli incontri tra Razov e Salvini avrebbero avuto un seguito nei mesi successivi, in altre tre occasioni, fino al 19 maggio scorso, durante le quali si sarebbe parlato del progetto di un viaggio a Mosca di Salvini, latore di un piano di pace, viaggio che però non ha mai avuto luogo.
Di per sé, l’incontro di un ambasciatore con il leader di un partito politico di governo rientra pienamente nella funzione di rappresentanza dello Stato accreditante nello Stato accreditatario, che è esplicitamente enumerata all’art. 3 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche tra le funzioni tipizzate di qualsiasi missione diplomatica (“proteggere nello Stato accreditatario gli interessi dello Stato accreditante”).
Né, a quanto è dato comprendere, la condotta dell’ambasciatore Razov, in questo caso, ha concretizzato interferenza negli affari interni italiani, vietata dall’art. 41 della Convenzione (“Tutte le persone che godono di privilegi e immunità sono tenute, senza pregiudizio degli stessi, a rispettare le leggi e i regolamenti dello Stato accreditatatario. Esse sono anche tenute a non immischiarsi negli affari interni di questo Stato”), e tanto meno ha interferito sugli affari esteri dell’Italia. Al contrario di come Razov aveva fatto quello stesso 1° marzo, cioè il giorno in cui erano in calendario le votazioni sulle misure a favore dell’Ucraina, inviando ai presidenti delle Commissioni Difesa e Affari Esteri della Camera dei deputati per l’inoltro a tutti i deputati, una lettera con allegato il testo di un discorso del ministro degli Esteri Lavrov sul ruolo dell’Unione Europea nei fatti dell’Ucraina. Di per sé un fatto non irrituale nella prassi diplomatica, ma che, visti i toni intimidatori non solo nei confronti dei responsabili politici dei Paesi che avevano deciso di fornire armi all’Ucraina ma anche verso le loro popolazioni, si configurava come intollerabile forma di pressione sulle libere determinazioni del Parlamento di uno Stato sovrano.
Non si può neanche legittimamente ritenere, come appena dimostrato, che “un faccia a faccia con un fedelissimo di Putin da parte di un leader politico che non ha nessun incarico di governo” sia “fuori da qualsiasi regola diplomatica, a maggior ragione in tempi di guerra” (Fittipaldi, “Salvini trattava con l’ambasciatore russo in Italia all’insaputa di Draghi”, Domani, 31 maggio 2022).
Certamente sarebbe stato opportuno che Salvini, nell’immediato seguito della cena e, più ancora prima dei successivi incontri con l’ambasciatore Razov in vista di un piano di pace, avesse informato delle sue attività la presidenza del Consiglio dei ministri ed il ministero degli Esteri, informativa che sicuramente non c’è stata, come fonti di stampa dicono di aver appurato presso Palazzo Chigi e la Farnesina. Informativa opportuna, si è detto, ma non obbligatoria o necessaria perché non prevista da alcuna norma internazionale o interna.
Perché quindi tanto clamore? Perché sulla stampa si è trattato Salvini da traditore della Patria? (S. Feltri, “Non si può governare con chi tratta col nemico”, in Domani, 31 maggio 2022). Addirittura con presentazione di interrogazioni scritte da parte dell’on. Elio Vito (FI) al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri per sapere se fossero informati degli incontri di Salvini e Capuano con ambasciate straniere, suscettibili persino di “compromettere la nostra sicurezza nazionale”. E con la possibilità che il Comitato per la sicurezza della Repubblica (Copasir) apra un fascicolo sulle attività di Antonio Capuano.
In questo contesto, si possono derubricare a semplici espressioni del dibattito e del confronto politico le affermazioni dell’on. Enrico Borghi, componente del Copasir, e dell’on. Lia Quartapelle, componente della terza Commissione (Affari Esteri e comunitari), entrambi del Pd, che hanno chiesto a Salvini di chiarire a Draghi le ragioni di una “iniziativa ambigua e sbagliata sotto il profilo diplomatico, istituzionale e politico”. O quella del segretario del medesimo partito, Enrico Letta, che ha sostenuto che “non può finire a tarallucci e vino” e ha chiesto “risposte su trattative non autorizzate di un partito di governo con l’invasore russo”.
La polemica ha avuto eco anche in sede europea, con dichiarazioni tra lo sprezzante ed il roboante del vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, e di esponenti europei del Ppe, che in questi giorni tiene a Rotterdam il suo congresso.
Tutti hanno posto l’accento sul fatto che non si devono avere rapporti con il nemico. Ma come? Il nemico? Allora le forniture di armi all’Ucraina, per carità legittime sul piano del diritto internazionale e della Costituzione italiana, hanno modificato la nostra posizione giuridica, come ho sempre pensato. Se la Russia è il nemico, “che non può vincere la guerra”, come ha affermato ieri il presidente del Consiglio, noi non siamo neutrali ma siamo cobelligeranti. Oppure non lo siamo e a Salvini non si può rimproverare “l’intelligenza con il nemico”. Fare la guerra senza ammetterlo: qui sta la vera ambiguità.
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