Il “caso Santanchè” ripropone ancora una volta l’opportunità politica rispetto alla realtà e ai tempi della via giudiziaria, il giornalismo d’inchiesta coraggioso rispetto a tanti attacchi preconcetti e precotte difese d’ufficio. Comunque la si legga, anche questa storia è – tanto per cambiare – l’ennesima occasione per reciproche stilettate e veleni tra politica e magistratura.
In piccolo, l’affaire assomiglia molto allo scenario che nel 1994 vide contrapposta la Procura di Milano e il centro-destra (allora targato Berlusconi) ed è triste vedere che trent’anni dopo “Mani pulite” ci sia ancora in questo Paese – sia da parte della politica che della magistratura – una mancanza totale di reciproca indipendenza e rispetto.
Ascoltare il ministro del Turismo sostenere a sua difesa di non essere stata raggiunta da alcun avviso di garanzia per le sue confuse vicende imprenditoriali e scoprire poi che questo era probabilmente vero, ma che l’atto le è stato inviato proprio in concomitanza con il dibattito in Senato (a sei mesi dall’inizio delle indagini) e che comunque il documento sia stato portato a conoscenza prima della stampa avversaria che dell’interessata, sembra la conferma di un modus operandi che si pensava abbandonato, ma che invece – evidentemente – è ancora all’onor del mondo.
È comunque una brutta faccenda, così come – se la difesa della Santanchè è tutta sul filo del diritto – resta aperta la questione impalpabile ma sostanziale, ovvero se sia o meno opportuno che la Santanchè continui a svolgere le sue funzioni di ministro dopo avventure imprenditoriali forse non penalmente perseguibili, ma sicuramente azzardate e che certamente stridono con i suoi doveri istituzionali e la necessità di essere sopra ogni sospetto.
Probabilmente, al momento della nomina, sia la Santanchè che Giorgia Meloni non sapevano delle indagini in corso, ma sicuramente quando queste circostanze sono emerse (e quindi prima ancora del servizio su Report) un passo indietro sarebbe stato opportuno. Un passo che a oggi certamente non sembrava e non sembra obbligato, ma prendendo atto del fatto che in passato ministri (e ministre) si sono dimessi per molto meno, mentre altri invece sono rimasti incollati al loro posto difendendosi fino all’ultima carta bollata e in attesa che passasse la bufera.
Perché – se pur il Senato ha preso atto dei fatti ma non ha votato – ora che c’è di mezzo un avviso di garanzia (che certo non è una condanna, né un rinvio a giudizio) il quadro comunque cambia, anche se – una volta di più bisognerebbe intendersi sul significato vero da dare, sia sui media che tra il pubblico, a un “avviso” che, inviato per tutelare l’indagato, appare come una condanna implicita oppure una tentata persecuzione.
Essere indagati non significa essere colpevoli e un’infinità di volte le inchieste sono finite nel porto delle nebbie evaporando per strada (vedi la recente vicenda milanese sui rapporti tra Lega e Russia), ma certamente sia l’interessata che l’opinione pubblica non possono avere un comportamento sereno e/o un giudizio limpido in presenza di fatti che ufficialmente dovrebbero tra l’altro essere coperti dal segreto istruttorio.
A questo punto – e una volta di più – l’uso strumentale degli avvisi di garanzia e i rinvii a giudizio servono per pressioni contrapposte con un mondo politico che raramente si muove con obiettività, privilegiando regolarmente l’attacco (o la difesa) di schieramento a seconda di chi sia oggetto di indagine.
Sul caso Santanchè si scaricano poi altre tensioni e ombre recenti tutte interne alla magistratura, per esempio per il braccio di ferro e i pessimi rapporti tra il ministro Nordio e buona parte del mondo giudiziario e – in primis – proprio la procura di Milano, in un gioco di forze e contromosse che non allietano né chiariscono l’ordinato dipanarsi delle inchieste.
Di fatto, come sempre, il cittadino ha il diritto di temere un giudizio che è condizionato politicamente e spesso vede l’avvio o meno di indagini a seconda delle correnti politiche delle procure e i potenziali indagati.
Una volta di più si finisce con il solito giudizio in sospeso, si innesta una polemica, si presenta l’ennesima richiesta di dimissioni, la si voterà a seconda dell’appartenenza politica, si discuterà di garantismo più o meno negato, le cose andranno per le lunghe e la polvere del tempo farà il suo corso, salvo accelerazioni improvvise legate non all’andamento delle indagini ma all’attualità politica.
Perché nessuno sa mai in Italia come finiscono le inchieste e tantomeno i processi, ma intanto in cielo restano nebbie e nuvole in sospeso.
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