Bisogna essere grati al boss dell’atletica mondiale! In un colpo solo ha dato visibilità internazionale all’ordinanza del giudice Pelino e ha messo esplicitamente sul tavolo le carte della partita. Come? Intanto sgombrando il campo da ogni equivoco: apprendiamo che gli illeciti comportamenti della World Athletics/ex Iaaf emersi durante il procedimento giudiziario di Bolzano non sono da ascrivere alla deriva di una linea processuale operata da maldestri avvocati o sprovveduti funzionari ma a una consapevole strategia condivisa al massimo livello della Federazione internazionale. L’assunzione di corresponsabilità di questa strategia da parte di Sebastian Coe comporta due conseguenze: una correità a livello penale e un identificato bersaglio a livello politico. La vicenda Schwazer a questo punto può aver come corollario che la facente funzione di comitato etico, cioè la Athletics Integrity Unit (Aiu), esiga le dimissioni di Coe, non a caso affrettatosi a parlare al plurale coinvolgendo nel “noi” anche la Aiu, sulla carta organismo indipendente ma che le parole di Coe farebbero ritenere colluso. In questo caso diverrebbe inevitabile anche la rimozione del presidente dell’Aiu.
Vi sono poi dei messaggi dal tono intimidatorio. Il primo rivolto a chicchessia provi a “indebolire o far annullare” la sentenza di squalifica del Tas. Non suoni strano che indebitamente il presidente di una Federazione si erga a portavoce del massimo tribunale sportivo. Le Federazioni concorrono a nominare i giudici della Corte arbitrale, la qual cosa ha fatto ribrezzo persino alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che in una sentenza del 2019 ha detto chiaramente che la collusione tra Federazioni e arbitri toglie terzietà al giudizio del Tribunale.
I destinatari del messaggio “in codice” di Coe però non sono tanto gli avvocati di Schwazer, che stanno tentando un disperato ricorso alla Corte federale svizzera, quanto le istituzioni del nostro Paese: la magistratura in primis, che osa mettere in discussione con 52 mesi di indagini la correttezza di un’inchiesta della Giustizia sportiva condotta in 24 ore; poi anche le istituzioni sportive, come si evidenzia nella frase “Non voglio che l’atletica leggera italiana venga contaminata”. L’espressione – specie a pochi mesi dalle Olimpiadi – suona ricattatoria. Che significa? “Caro Malagò, caro Mei statevene buonini al vostro posto se no…”? Se fosse da interpretare così, quel “se no…” a cosa potrebbe alludere? Stop agli eventi di atletica da assegnare al vostro Paese? O peggio?
Il predecessore di Sebastian Coe, Lamine Diack, mandava in giro il figlio a mostrare alle Federazioni il database con le positività al doping dei loro atleti e le ricattava: “se pagate, ci tiriamo una riga sopra”. Naturalmente colui che era suo vice – Sebastian Coe appunto – non si accorse di nulla e per questo fu eletto al suo posto. Non la pensano così la Commissione parlamentare d’inchiesta britannica, la Bbc, il Daily Mail e tanti altri che all’epoca denunciarono il contrario, cioè che Coe sapeva, eccome! Se avessero ragione gli scettici cosa dovremmo dedurre? Che i ricatti potrebbero essere gli stessi dei tempi di Lamine Diack e che il prezzo della complicità ora non siano più i soldi ma il silenzio su Schwazer?
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