Il caso Siri è ben diverso da quelli già affrontati da altri Governi, quando la revoca della nomina a sottosegretario fu risolta con l’unanime decisione assunta in seno al Consiglio dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio di concerto con il Ministro interessato, e con il successivo decreto presidenziale. Come confermato dalla prassi e sulla base di un principio consolidato del diritto pubblico (il cosiddetto “parallelismo della forma”), la stessa procedura prevista dalla legge in caso di nomina, può essere utilizzata per la revoca di un sottosegretario. Ovviamente, perché quest’ultima vada a buon fine, è necessario rispettare le medesime condizioni.



Rispetto al ruolo dell’organo collegiale, poi, la legge prevede che il Consiglio dei ministri sia “sentito”. Ciò in quanto la presenza o meno di un determinato Sottosegretario – organo che è legittimato, tra l’altro, ad esprimersi in Parlamento a nome dell’esecutivo tutto – è questione su cui l’intero collegio dei Ministri non può essere non essere almeno coinvolto, appunto con funzione consultiva.

Sul punto, la prospettiva palesata da qualcuno, quella cioè di un possibile voto “a maggioranza” all’interno del Consiglio dei ministri, non è particolarmente rilevante dal punto di vista formale, mentre, come vedremo tra poco, è potenzialmente deflagrante dal punto di vista politico.

Circa gli aspetti procedurali, innanzitutto, le delibere del Consiglio sono normalmente approvate senza votazione, e sono sottoposte al voto solo se il Presidente del Consiglio lo consideri “opportuno” (in base all’art. 7 del regolamento interno). In ogni caso, qualora si giunga a tale evenienza, nessuna indicazione circa i voti espressi (favorevoli o contrari) viene riportata nella deliberazione conclusivamente assunta, mentre dei voti stessi si fa menzione solo nel processo verbale, che, tuttavia, è “riservato” (in base all’art. 13 del regolamento).

Quindi, nell’ipotesi in cui il parere in questione sia assunto con delibera sottoposta a votazione in seguito ad apposita decisione del Presidente del Consiglio dei ministri, formalmente ciò non risulta, e dunque nulla muta rispetto al procedimento disciplinato dalla legge, neppure circa il successivo svolgimento del compito spettante al Capo dello Stato. 

È tuttavia evidente che l’eventuale “riservatezza” formalmente imposta sarebbe subito scardinata dalla gravità politica della situazione così determinatasi. Gravità testimoniata sia dalla drastica decisione assunta dal Presidente del Consiglio di voler verificare in Consiglio l’esistenza di una volontà maggioritaria coerente con la sua proposta (assunta di concerto con il Ministro interessato); sia dalla palese esplicitazione, mediante la presenza di un voto non unanime, del disaccordo tra le forze politiche che compongono la coalizione governativa rispetto ad una decisione rilevante per la composizione complessiva dell’esecutivo.

È chiaro che, per scongiurare esiti così pericolosi per la sopravvivenza dell’esecutivo, occorre evitare, soprattutto, di mettere ai voti la questione in Consiglio dei ministri. Nel caso in cui ciò avvenisse, sarebbe praticamente sicuro l’esito, cioè la sanzione approvata ufficialmente contro la volontà espressa da una parte della maggioranza. Con ciò dimostrandosi nei fatti l’incapacità dei relativi organi dirigenti di difendere i propri rappresentanti al governo, e dunque obbligandoli, in buona sostanza, a rassegnare le dimissioni. E, del resto, la forza politica presumibilmente soccombente difficilmente deciderebbe di sottrarsi allo scontro, ad esempio non partecipando al Consiglio dei ministri.

Se formalmente nulla cambierebbe circa l’esito della deliberazione collegiale, sostanzialmente sarebbe parimenti certificata la condizione di “minorità” all’interno della coalizione di governo, con la conseguenza quasi inevitabile dell’apertura della crisi di governo. In entrambi i casi, ricucire i rapporti tra le forze politiche della coalizione sarebbe una “missione impossibile” anche per il più esperto mediatore.