Le elezioni regionali di questa tornata offrono nella loro parzialità, solo sette territori, uno spaccato preciso e illuminante della situazione, prima che politica, sociale ed economica del paese. E se vogliamo capire qualcosa dei sistemi di potere, delle sue dinamiche, insomma, se vogliamo afferrare il filo della ingarbugliata matassa della politica italiana è da qui che dobbiamo partire.



Esemplare il caso della Toscana, la mia regione. Qui la vittoria di Eugenio Giani e del Pd è stata significativa. L’energia della sfidante leghista Susanna Ceccardi, ex sindaco di Cascina nel pisano, molto ha mosso, ma poco di più poteva fare davanti alla forza delle armate dell’avversario che si sono sommate a debolezza locali e ad un trend non positivo. La Lega infatti in Toscana perde rispetto alle europee un buon 10%, passando dal 31% al 21%, ma non si dimentichi che nel 2014 raccoglieva un modestissimo 2,56%.



La candidata leghista si è dovuta piegare alla forza della tradizione identitaria, alla rete di interessi ben costruita e rappresentata, ormai eredità di cinquant’anni di potere senza soluzione di continuità dal Pci al Pd. Inoltre non si dimentichi che la Toscana è terra di denatalità, di popolazione anziana, di pensionati, di pubblico impiego, con una struttura economica in crisi, ma senza devastanti tensioni sociali, né verso il basso né verso l’alto. Ed ecco la campagna elettorale del centrosinistra tutta giocata all’insegna della battaglia contro “la destra eversiva” – sono parole dell’uscente presidente Rossi –, della nuova unità antifascista della “nostra Toscana” contro il barbaro leghista venuto da fuori, riedizione ridicola del Fronte popolare.



Poco importano i programmi, il fatto che la regione sia ferma in progettualità da decenni, che non si sappia costruire un’autostrada, collegare decentemente Siena a Firenze, che il Monte dei Paschi sia saltato per aria per colpa loro, che – al di là degli spot da cartolina con i cipressi – nessuno pensi ad un modello di turismo altro o a risolvere i problemi delle aeree in crisi. L’importante è garantire la continuità, l’intreccio di interessi e identità che ancora sopravvive in una mobilitazione che ha coinvolto sindacati, associazionismo cattolico, pubbliche assistenze, società sportive, cooperative, associazioni di categoria.

Se si vuole una citazione classica gramsciana, il Pd sa ancora esercitare la sua capacità egemonica sulla società: a riprova sta il prosciugamento delle liste alternative della sua stessa area, i 5 Stelle che raggiungono uno scarso 6,44% e la lista di estrema sinistra che arriva ad un inutile 2,21%. O basta pensare allo stesso scarso appeal di Italia Viva (4,5%) nella regione del suo leader, da dove Renzi ha iniziato la sua scalata. Ecco allora Giani, il candidato non carismatico ma rassicurante nella continuità, “l’usato sicuro” sbandierato come un vanto in campagna elettorale.

Nonostante il sentimento di stanchezza trasmesso dall’avversario, nonostante l’impegno della Ceccardi che infatti ha ottenuto qualcosa di più del miglior risultato del centrodestra fino ad oggi quando nel 2000 Altero Matteoli prese il 40,05% contro Claudio Martini, il centrodestra non ce l’ha fatta. Una sconfitta avvenuta per vari motivi. I suoi voti sono voti di opinione. Il centrodestra da sempre, dai tempi di Forza Italia, in Toscana, salvo eccezioni, non esiste come forza organizzata, come partito, perché non ha mai voluto svolgere un lavoro capillare, paziente e continuativo per rappresentare in modo diverso interessi esclusi, per offrire alternative agli altri, mai si è dedicato alla costruzione di un consenso profondo, mai ha pensato di elaborare uno straccio di progetto. Né tantomeno ha espresso leader politici riconosciuti e ben radicati nel territorio o ha cercato candidati forti provenienti dalla società civile.

Quindi, vittoria del Pd – che comunque in assoluto ha perso 50mila voti rispetto alle regionali precedenti – espressione di una Toscana statica e conservatrice, differente dalla pur rosa Emilia-Romagna quanto è differente Giani da Bonaccini, cavallo di razza che corre in una regione in movimento, produttiva, con una fortissima dialettica sociale e politica, dove il Pd è costretto a darsi una smossa. A dimostrazione, le sue posizioni eterogenee rispetto alla linea, dall’adesione al “No” al referendum sulla riduzione dei parlamentari alla campagna per l’autonomia regionale assieme all’altro Nord.

E poi vengono i risultati delle regioni meridionali con le vittorie dei cacicchi Emiliano e De Luca.

Ecco allora che accanto ad un Pd toscano fermo all’antifascismo, ad un secondo Pd riformista e dinamico alla Bonaccini, simile al primo Renzi ma ben radicato nella sua terra, se ne scopre un terzo populista, clientelare, che tiene assieme tutto ed il contrario di tutto, con le mani protese sulla cassa della spesa pubblica più che sullo sviluppo. Un Pd, quello meridionale, lontano anni luce dal partito comunista di Di Vittorio, Girolamo Li Causi, o di Emanuele Macaluso; un Pd che ha assorbito tutti i temi dei 5 Stelle, dal giustizialismo all’anti-industrialismo, dove il reddito di cittadinanza non suscita nessuna critica e i gasdotti sono un nemico da bloccare, nuova Tav del Sud da bloccare. Un Pd che non ha più nessuna radice nella tradizione comunista né di sinistra, a differenza di quello toscano o emiliano.

Di contro, l’Italia settentrionale votata allo sviluppo economico e governata con pragmatismo riformista dal centrodestra risultato vincente in modo esemplare con Zaia nel Veneto.

Il rischio di questa frammentazione per la tenuta del paese è enorme, perché non si capisce quali forze e istituzioni centrali possano fare da freno a questa deriva, stante che l’unico partito nazionale, il Pd, è così ridotto.

Forse emergeranno nuove camere di compensazione come la Conferenza Stato-Regioni, vera terza camera, questa sì espressione di reali interessi. Quando infatti arriveranno i soldi dall’Europa, le differenti logiche ed esigenze di ripartizione dei fondi, espressione di questi differenti sistemi regionali, si scontreranno in modo pesante, tanto più che quel Nord ha poca voce nell’attuale governo. E il confronto-scontro con l’attuale debolissimo governo centrale – ricordiamoci che l’azionista di maggioranza M5s non esiste più politicamente – sarà durissimo, anche perché sul tappeto c’è il nodo, rimandato a suo tempo, dell’autonomia regionale, portato avanti da Lombardia, Veneto e dalla rossa Emilia. Non serve ricordare che i governatori regionali, a differenza di questo governo, sono legittimati da un voto diretto. Per di più molti di loro sono dei veri leader carismatici.