Dopo mesi di discussioni accese e polemiche roventi, il caso giudiziario che sembrava potesse segnare una inversione di tendenza nel rapporto fra politica e magistratura ci ha invece regalato il più classico finale all’italiana. L’affaire Toti, in attesa del benestare del Gup, si avvia a risolversi con un patteggiamento, in grado, almeno in apparenza, di far cantare vittoria a tutti i protagonisti della vicenda. Proviamo tuttavia ad avvolgere il nastro e a mettere in luce qualche spunto di riflessione.



All’esito di una indagine durata anni, la procura di Genova chiede e ottiene 4 mesi fa l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il presidente della Regione Liguria, constestandogli condotte di corruzione. Nella vicenda non girano né mazzette né false consulenze ma regolari finanziamenti versati da un noto imprenditore al partito di Toti, il quale, in cambio, avrebbe favorito l’emanazione di delibere regionali compiacenti. Il tema quindi tutto politico, prima ancora che giuridico, ruota intorno alla sussistenza o meno della legittimazione a ricevere finanziamenti in ossequio alle previsioni normative da parte di soggetti portatori di interessi privati, come il rilascio di concessioni pubbliche.



Abolito il finanziamento pubblico, la politica ha deciso di vivere di finanziamenti privati ma forse ha mal regolato la questione, non riuscendo a realizzare un sistema come quello americano in cui quanto accaduto sarebbe stato ritenuto molto più difficilmente illecito. Il tutto condito dall’ulteriore circostanza che la revoca della misura cautelare è arrivata solo a condizione delle dimissioni del governatore, così da rinfocolare ancora di più la polemica sulla interferenza della magistratura rispetto alle scelte degli elettori.

Fissato l’avvio del processo per novembre con il rito immediato, ovvero bypassando l’udienza preliminare proprio in virtù della vicenda cautelare, dagli ultimi giorni di agosto stava montando un’ulteriore polemica sulla difficoltà della difesa di studiare l’enorme mole di atti di indagine. Oltre 20 terabyte di intercettazioni telefoniche, audio e video cominciate nell’agosto del 2021 e terminate a fine 2023. Dopo, infatti, la chiusura delle indagini e la richiesta di giudizio con rito immediato, gli avvocati dei tre imputati hanno potuto accedere alla gigantesca mole di dati poiché prima avevano potuto spulciare solo le intercettazioni utilizzate (in tutto o in parte) dai pm nelle indagini e che erano allegate agli atti della richiesta di giudizio.



Opportunamente, visto che le microspie, i trojan e le videocamere erano state attive 24 ore su 24 per quasi 2 anni, i difensori avevano iniziato a invocare la necessità di verificare che oltre a quelle dall’accusa non ci fossero conversazioni o immagini che avrebbero potuto essere preziose per accedere a una lettura diversa ed opposta di quello che è stato contestato dai pm. Il problema, però, è che per consultare, sentire e vedere questa valanga enorme di intercettazioni i legali devono accedere alle postazioni d’ascolto allestite in Procura senza – come prevede la legge per tutelare la privacy delle persone coinvolte ed evitare fughe di notizie – poter copiare i file in modo da esaminarli in studio. A fronte di ciò, i legali, con la solidarietà della maggior parte degli addetti ai lavori, stavano palesando grandi difficoltà tecniche nell’esame delle intercettazioni, ciascuna delle quali richiede anche interi minuti per essere aperta.

Tuttavia, la legge concede per l’esame appena 15 giorni, che benché possano essere prorogati di altri 10, appaiono del tutto insufficienti per lavorare alla predisposizione di una adeguata difesa, per non parlare poi dei costi a tutto ciò connessi, dovendo operare una ricerca alla cieca che impone di aprire i file uno ad uno, compresi quelli che poi si rivelano lunghissimi video inutili registrati magari durante la notte. Insomma, come anche evidenziato dal presidente dell’Unione delle camere penali italiane, la circostanza emersa di recente della durata pluriennale delle intercettazioni ambientali e telefoniche non solo appare inammissibilmente sproporzionata rispetto all’oggetto del processo, ma mette in luce i rischi connessi all’arbitrarietà priva di sanzioni della scelta da parte del Pm delle incolpazioni di ambito mafioso dalle quali discende l’utilizzo di tale strumento intercettativo. Per non dire della conseguente compressione del diritto di difesa, dovendosi l’imputato confrontare con una quantità così incommensurabile di dati intercettativi da rendere impossibile il controllo dei relativi contenuti.

Insomma, la tanto strombazzata riforma del processo non potrà pertanto non confrontarsi con il nodo relativo all’impossibilità del raggiungimento di un equilibrio dei poteri fra accusa e difesa in assenza di equilibrio nell’utilizzo dei relativi mezzi.

Anche forse per tale aspetto di problematicità, è giunta l’altro giorno l’inattesa notizia che a quattro mesi dall’arresto Toti ha deciso di chiudere la sua vicenda processuale, raggiungendo con la Procura di Genova l’accordo per patteggiare a 2 anni e 1 mese, pena trasformata poi in 1.500 ore di lavori socialmente utili. La notizia non è priva di effetti. Da un punto di vista tecnico, il patteggiamento, che pare sia stato proposto dalla Procura, andava per previsione normativa raggiunto entro il 15 settembre, circostanza che taglia sul nascere qualunque speculazione sulla tempistica, che, si ripete, era del tutto obbligata. Altro aspetto da sottolineare è che la conversione di pena è resa possibile dalla recente riforma Cartabia, che ha inteso fortemente favorire la chiusura dei procedimenti attraverso forme alternative al processo vero e proprio.

Inoltre, l’accordo raggiunto fra accusa e difesa non può dirsi definitivo nel senso che esso dovrà necessariamente essere ratificato dal Gup, il quale dovrà sia verificare la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti, sia la congruità della pena e sia, si faccia attenzione, l’inesistenza di cause di proscioglimento. Aspetto tecnico questo di assoluta rilevanza. Nel nostro sistema infatti il patteggiamento, a differenza ad esempio di quello previsto in America, non comporta l’assunzione di colpa ma al contempo il giudice che lo ratifica è chiamato a verificare che non sussistano cause di estinzione, come ad esempio la prescrizione, ma anche l’eventuale esistenza di cause di improcedibilità, ovvero elementi da cui dedurre che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’abbia commesso.

Dopo l’arresto, Toti ha sempre rigettato l’accusa di corruzione e ha sostenuto più volte che sia necessaria una modifica della legge sul finanziamento dei partiti. Sebbene si possa affermare, come fa l’ex governatore, che i pm abbiano riconosciuto che gli atti prodotti dalla Pubblica amministrazione fossero totalmente legittimi così da contestare la corruzione impropria, resta il fatto che il nesso causale fra finanziamenti e provvedimenti amministrativi viene a essere cristallizzato, rinunciando egli a dimostrare che quei provvedimenti sarebbero stati assunti nell’interesse della collettività a prescindere dall’erogazione del finanziamento. Su questo aspetto occorre essere chiari. Certo a favore di Toti va invece ribadita la reale proporzione dei fatti avvenuti. Due anni di indagini serrate con costante monitoraggio della sua vita e con una spesa ingente, hanno palesato solo condotte di corruzione impropria per poco più di 80mila euro (non proprio la maxi tangente Enimont, ecco). Al contempo va ribadito che non sia certo sbagliato allora sollecitare le forze politiche a fare chiarezza sulle troppe norme ambigue che regolano aspetti che dovrebbero essere appannaggio della sfera politica stessa e non di quella giudiziaria.

Tuttavia, se dal punto di vista personale la scelta di patteggiare appare pienamente comprensibile, essa francamente pecca di coerenza, se effettuata da chi ha passato mesi a raccontarsi come martire della giustizia, gridando al golpe giudiziario. La vicenda si conclude all’insegna dei “tarallucci e vino”, perché Toti non entrerà più in carcere e se la cava con 1.500 ore di servizi sociali, ma non è un pareggio; magari di misura, ma a vincere è la procura di Genova.

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