Il tema più “caldo” della cronaca politica ha assunto la veste di un’informazione per addetti ai lavori in materia di giustizia. Quasi tutti gli articoli sul “caso Toti” sono affollati di dettagli e di tecnicismi che rendono difficile ai più orientarsi nell’accaduto. Di conseguenza non appare superfluo tentar di fare un po’ di chiarezza. Al governatore della Liguria Giovanni Toti sono contestati i reati di corruzione elettorale e corruzione per l’esercizio delle funzioni e per atti contrari ai doveri di ufficio.



La prima fattispecie è prevista da una legge del 1960 che, tra le altre ipotesi delittuose, punisce quei candidati che per procurarsi i voti promettono a uno o più elettori utilità di qualsiasi natura. La norma sanziona anche l’elettore che promette il voto in cambio di denaro o altra utilità.

Nel caso specifico l’accusa a Toti è di aver promesso posti di lavoro ad alcune persone in cambio del voto alle elezioni regionali del 2020.



In realtà dalla lettura dell’ordinanza non emerge una condotta posta in essere direttamente dal presidente della Regione, Toti, ma di altro soggetto facente parte del suo comitato elettorale. Ritiene però il giudice che costui avrebbe agito nell’interesse e come mandatario di Toti che quindi deve, a sua volta, rispondere del reato contestato a titolo di concorso. Si tratta di un’ipotesi tutta da verificare e su cui le difese avranno certamente molto da dire. Peraltro la misura cautelare non è stata né chiesta, né naturalmente applicata per questo delitto, in quanto i limiti edittali non lo consentivano.



La seconda ipotesi contestata a Toti è quella di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio per aver compiuto atti amministrativi legittimi ed  illegittimi (trasformazione di spiagge da libera a privata, velocizzazione di una pratica di rinnovo di concessione e solleciti per il rilascio di autorizzazioni per aperture di punti vendita di supermercati) in cambio di finanziamenti ai suoi comitati elettorali in occasione di diverse tornate elettorali.

E qui si pone il problema della normativa in tema di elargizione di contributi ai partiti. Se cioè si era in presenza di finanziamenti leciti oppure no. È emerso che per lo più (non sempre, secondo l’ordinanza) si trattava di donazioni regolarmente deliberate ed iscritte a bilancio da chi le ha erogate. Il reato di corruzione sussiste se a fronte di queste liberalità sono conseguiti vantaggi ai donatori sotto forma di provvedimenti amministrativi legittimi o illegittimi emessi a loro favore dai pubblici amministratori. Secondo l’ordinanza vi sono gravi indizi a carico degli indagati, ma anche su questo i legali avranno molto da lavorare per cercare di dimostrare che a fronte di contributi elettorali elargiti alla luce del sole, nessuna preferenza o favoritismo è stato concesso.

Ma si riapre ora anche il tema dei costi delle campagne elettorali e del finanziamento pubblico ai partiti, oggetto in passato, dopo l’esperienza tragica di Mani Pulite, di numerose leggi ed ancora più numerose polemiche e contese politiche tra favorevoli e contrari. Non sembra che i finanziamenti “privati”, soprattutto se elargiti da società o comunque enti economici, rassicurino sulla natura puramente ideale del loro sostegno e non determinino invece in capo ai donatori aspettative cui i pubblici amministratori beneficiari, più o meno coscientemente, non riescono a sottrarsi.

Un’ultima osservazione riguarda l’opportunità di contestare i reati con l’emissione di una misura cautelare (arresti domiciliare nel caso specifico).

La motivazione addotta dal giudice appare francamente inverosimile. Il giudice ha ritenuto che Toti, se non incarcerato, avrebbe potuto continuare a chiedere ed ottenere illeciti finanziamenti in occasioni di altre future elezioni. Francamente appare una motivazione priva di consistenza, essendo inverosimile che chi apprenda, anche se a piede libero, di essere indagato per corruzione o finanziamento illecito ai partiti si prodighi a processo in corso per commettere altri reati analoghi.

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