La vicenda giudiziaria che ha travolto il presidente della Regione Liguria ha fatto da ulteriore detonatore nei già fragili rapporti fra politica e magistratura, abbracciando non di meno il tema dei rapporti con la stampa. La domenica appena trascorsa poi ha registrato un certo tasso di tensione anche per la bocciatura, ampiamente annunciata, della riforma della giustizia da parte dell’Associazione dei magistrati (Anm). Molti spunti sarebbero meritevoli di essere sviscerati. Prima ancora, vanno tuttavia formulate due premesse.
La prima, per quanto scontata, è relativa al fatto che va sempre tutelata la presunzione di innocenza e pertanto il processo non può celebrarsi sulla stampa, ma in un’aula di tribunale; la seconda, strettamente connessa, è che allo stato tutti i commentatori, di qualunque ordine e grado, possono al più conoscere esclusivamente ciò che è stato riportato nell’ordinanza cautelare, non essendo stata ancora realizzata la discovery degli atti di indagine. A oggi, quindi, si è discettato esclusivamente su una parte del materiale d’indagine senza che ancora le difese abbiano potuto formulare le proprie deduzioni. Il concetto va ribadito: le varie ricostruzioni giornalistiche si sono esclusivamente basate su una porzione limitata di atti esclusivamente dell’accusa. Precisazione che induce chi scrive ad affermare che dovrebbe risultare inopportuno commentare nel merito ciò che non si conosce e che riguarda un procedimento in fase di indagini. Oltre l’ordinanza cautelare evidentemente diffusa alla stampa, l’unico altro atto ufficialmente diffuso è a oggi il comunicato stampa della Procura della Repubblica con il quale l’autorità giudiziaria ha comunicato le intervenute misure di custodia cautelare. La scarna riflessione sul merito dell’accusa che verrà in questa sede articolata si baserà pertanto unicamente su tale comunicato, concentrando inoltre l’attenzione esclusivamente sulle contestazioni mosse a Toti.
Ebbene, dal comunicato stampa apprendiamo che questi è accusato di corruzione per l’esercizio della funzione e per atti contrari ai doveri d’ufficio, avendo ricevuto finanziamenti pubblici regolarmente dichiarati a fronte dell’impegno di: “trovare una soluzione” per la trasformazione della spiaggia libera di Punta Dell’Olmo da “libera” a “privata”; agevolare l’iter di una pratica edilizia relativa al complesso immobiliare di Punta Dell’Olmo pendente presso gli uffici regionali; velocizzare e approvare la pratica di rinnovo per trent’anni della concessione del Terminal Rinfuse pendente innanzi al Comitato di Gestione dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale; assegnare a Spinelli gli spazi portuali ex Carbonile Itar e Carbonile Levante; assegnare a Spinelli un’area demaniale in uso al concessionario Società Autostrade (Aspi).
Sempre a causa della scarsezza delle informazioni, allo stato non è dato comprendere in quali condotte concrete siano consistiti gli atti contrari. Toti potrebbe aver meramente accelerato l’emanazione di atti comunque dovuti o al contrario potrebbe aver indirizzato arbitrariamente la sua azione di pubblico amministratore. Sembrerebbe che i suoi atti amministrativi non riguardassero gare di appalto, ma la definizione di pratiche in cui non pare che il corruttore gareggiasse con altri. Quel dettagliato elenco di atti contrari ai doveri di uffici meriterà pertanto di essere scandagliato e approfondito alla ricerca della concreta condotta penalmente rilevante. Siamo certi che avendo accesso a tutto il materiale d’indagine il quadro si completerà.
Al contempo, sarà oggetto di forte discussione l’individuazione del nesso sinallagmatico fra tali condotte e la ricezione di denaro che non è avvenuta in modo occulto ma attraverso quanto espressamente consentito dalla legge. L’accusa dovrà in sostanza dimostrare che quel finanziamento ricevuto e regolarmente denunciato sia il controvalore di un atto improprio del presidente della Regione e non una liberalità pienamente consentita dalla legge.
Allo stato, diciamo che si può quindi comprendere la perplessità di chi afferma che emerga una scarsa comprensione di cosa rappresenti la politica, come ha affermato il ministro Crosetto, attraverso un’affermazione suggestiva ma non priva di un qualche fondamento.
Ma il vero fulcro della vicenda in parola è che il richiamo alla sacrosanta presunzione di non colpevolezza non può e non deve servire alla politica a evitare anche qualsiasi valutazione politica ed etica delle condotte di persone con responsabilità pubbliche. Proprio per questo è necessario operare un serio tentativo di costruire regole comuni e condivise. È noto che chi riveste funzioni pubbliche non ha solo – come tutti – l’obbligo di rispettare la legge, ma l’articolo 54 della Costituzione impone che debba farlo con “disciplina ed onore”, ovvero garantendo l’autorevolezza e la credibilità dello Stato e dell’istituzione che rappresenta e incarna. Una riflessione equilibrata ma intransigente sulle condotte delle persone con responsabilità pubbliche è necessaria per la democrazia e non può essere rinviata a dopo la decisione della Cassazione o delegata al solo processo penale. Sotto un duplice aspetto.
Per un verso, a prescindere dall’essere o no un reato, non si possono decidere concessioni su uno yacht, per lo più se il padrone di casa è direttamente interessato dalla vicenda oggetto di discussione. Ciò lede l’essenza della democrazia. In questa logica, il rapporto tra istituzioni e imprese diventa inesorabilmente perverso e va censurato. Al netto delle verifiche sulla configurabilità della corruzione, lo scenario che emerge, come ha osservato Francesco Merlo, è “la variante genovese del kitsch Vanzina”, fra “caviale consumato sullo yacht dell’arraffo, tra bollicine e bracciali d’oro di Cartier, borse di Chanel e sedute dal parrucchiere”.
Per altro verso, come spesso accade nel nostro Paese, regna una certa confusione su aspetti regolatori importanti per una democrazia. La legge che autorizza il finanziamento privato ai partiti è lacunosa. Come ha ben detto il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, non c’è nemmeno l’obbligo di verificare se il donatore ha interessi diretti o indiretti con il politico finanziato. Toti ben poteva ricevere quei finanziamenti che non riteniamo debbano essere considerati aprioristicamente il corrispettivo di un atto corruttivo, ma se quei finanziamenti leciti arrivano da un imprenditore che ha rapporti diretti con l’istituzione che egli presiede, quanto meno non era opportuno, per non dire eticamente opportuno, che ci fosse quella frequentazione così stretta. Nell’assenza di regole e trasparenza si annida tanto il sospetto quanto il comportamento illecito.
Ecco che allora il più interessante aspetto che emerge dalla vicenda attiene alla necessità di operare un serio tentativo di costruire regole comuni e condivise. L’arresto di Toti, nonostante le somme a lui destinate risultino tutte essere state rendicontate, apre una pagina diversa, in cui i rapporti tra politici e imprenditori devono trovare un assetto più chiaro: la differenza tra finanziamento ai partiti e mazzetta appare forse meno definita di quel che si pensasse. Sul finanziamento ai partiti, dal momento in cui esso diventa foriero di sospetti, va trovata una precisa regolamentazione. Guai a non bloccare sul nascere il timore da parte di un’azienda privata nel finanziare la politica.
Enrico Letta ha ricordato che quando venne abolito il finanziamento pubblico con il suo Governo, anno 2013, si dovevano poi approvare dei decreti attuativi sulla trasparenza della parte privata, ma poi il suo Governo è caduto e così come sulle lobby e sulle fondazioni, in Italia nessun intervento di dettagliata regolamentazione è stato emanato. Facile allora temere che, in presenza di un boom di finanziamenti ai partiti di centrodestra al governo da parte di aziende e imprenditori come avvenuto per il 2023, lo schema della contestazione della procura di Genova possa essere adottato su larga scala.
Il tema dell’assenza di regole va risolto molto ma molto in fretta.
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