Il prosieguo dei domiciliari del presidente della Liguria Giovanni Toti è un fatto di grande e drammatica rilevanza. Lo è per lui, ancora privo della sua libertà, e lo è per il nostro sistema istituzionale, che certifica con questa carcerazione che la crisi tra politica e magistratura è ancora viva.

Non è solo un tema di merito. Il fatto che un collegio abbia ritenuto nella sostanza che ci sia un rischio di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato è un giudizio che va rispettato e sottoposto eventualmente al vaglio di altri magistrati in Cassazione. Quello che lascia perplessi è quanto appaia del tutto fumosa la condotta illecita agli occhi di tanti. E soprattutto a quelli di Toti. Se molti ritengono che si sia comportato in modo corretto e, nonostante ciò, la magistratura ritiene che ci sia un fumus di reato è perché il confine tra lecito e illecito in tema di finanziamento ai partiti e gestione del rapporto tra politica e imprese non è chiaro. E questo è un vero dramma, se si pensa che questa carenza di chiarezza va avanti dai tempi di Tangentopoli, da quando Bettino Craxi si alzò in Parlamento e disse con chiarezza che mancava una norma precisa e definita che dicesse come i partiti dovevano sopravvivere e finanziarsi in modo  chiaro. Dopo di lui tanti hanno posto il problema, ma l’onda moralista ed illogica che ha ricoperto la ragione ha sempre vinto.



L’indignazione della gente (che non è il popolo) si è espressa in modo spesso violento e netto sul tema tramite strilloni opportunisti. Al punto di ridurre al silenzio chi ha posto il problema. Perché non vi è dubbio che gestire un partito vuole dire avere rapporti con le forze sociali ed economiche, con imprese ed imprenditori e chiederne il sostegno. E farlo quando si è dei semplici cittadini o si ricopre un ruolo istituzionale non può essere diverso. Mancando un sistema di relazioni chiaro, la magistratura interviene e dà le sue interpretazioni delle condotte applicando la legge così come la intendono quei giudici.



Manca quindi il passo ultimo e necessario della politica, ovvero assumersi la responsabilità di un testo unico che dica con chiarezza cosa e come si può fare politica facendo ricorso ai finanziamenti pubblici e/o privati. E tenga fuori la magistratura dal necessario ruolo suppletivo che è chiamata altrimenti a svolgere.

Non è uno spazio piccolo quello da coprire. In quel luogo grigio che è l’interpretazione sono caduti in tanti, negli anni. Da ultimo Matteo Renzi, a cui hanno imputato di tutto e che è stato sbattuto sui giornali senza che neppure una delle attribuzioni di reato diventasse condanna. Eppure pagine di giornali e facce indignate ne hanno segnato il percorso politico in senso negativo. E lui è solo l’ultimo di tanti che hanno speso anni a dirsi innocenti anche se condannati da inchieste urlate sui giornali.



Ora il tema non è tanto se Toti sia innocente, cosa che ogni garantista si augura, ma se si possa pensare che una società matura e moderna possa permettersi di tenere tutta la sua classe dirigente sotto lo scacco di interpretazioni di norme e sistemi che non sono per nulla chiari. E ciò che fa riflettere è come sia possibile che proprio loro, i politici, non mettano mano al problema pur denunciandolo.

La risposta è il timore della piazza, delle monetine a Craxi, delle urla grilline o legalitarie di destra e sinistra che usano gli eventi per creare consenso invece che impegnarsi per governare i fenomeni. Vince la paura di essere accusati di voler limitare la magistratura, unita alla voglia, di altri, di lasciare tutto nel grigio.

Ma se ora la cosa diventa drammatica, con Toti ostaggio di questo grigio sistema, allora forse è ora che i politici si decidano. O mettono in chiaro le regole senza zone d’ombra o si affidano alla sorte ed alle interpretazioni dei magistrati facendosi mesi ai domiciliari. Toti è l’ultimo di tanti. Di troppi. E la colpa, spiace dirlo, non è dei magistrati, ma di chi non dà loro le regole chiare e giuste da applicare. Almeno fino ad ora.

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