Siamo alla vigilia di un nuovo rovesciamento dei poteri nella finanza veneta. E come tutte le rivoluzioni si annuncia cruenta. Si abbattono i simboli anche a prezzo di negarne valore e ruolo passato. E’ quanto sta accadendo per Cattolica Assicurazioni, dove sull’altare della trasformazione in società per azioni dell’ultima grande cooperativa finanziario-assicurativa italiana (ma all’estero prosperano e sono ipertutelate) non si risparmiano i colpi e le azioni violente. Prima di tutto rompere con il passato: in primis con Paolo Bedoni, il presidente che per 14 anni ha gestito con equilibrio e attenzione un Gruppo che già nell’anno successivo al suo ingresso ha dovuto lavorare per ricostituire l’intero patrimonio immobiliare a causa di scelte manageriali sbagliate sulla valutazione delle riserve e quindi difendere la Compagnia dall’operazione con l’allora Banco Popolare, intenzionato a comprarsi Cattolica ad enorme sconto rispetto al suo reale valore.
Quindi, per chi ha la memoria corta, a favorire l’ingresso di Banca Popolare di Vicenza, la vituperata Pop Vicenza, i cui capitali, all’epoca, permisero di mantenere a Verona ed in Veneto una Società che stava prendendo la via di Milano con la spagnola Mapfre. Non solo. Il costante dialogo con i circa 20 mila soci incontrati da Bedoni con centinaia di assemblee territoriali, convincendoli ad accettare un primo aumento di capitale che facesse uscire la società dalle sabbie mobili della crisi (2007), ad accogliere l’ingresso in Borsa (nel 2000) aprendo la porta nello statuto a soci di capitali come Warren Buffet (2017), ad approvare riforme statutarie contra natura per una cooperativa (comitati endoconsiliari, cda ridotto, sistema monistico), a defenestrare un amministratore come Alberto Minali reo di aver tentato di portare la società nelle braccia di qualche fondo internazionale e di aver strapagato la partnership con il Banco Popolare portando l’azienda a rischio solvibilità alla prima crisi dello spread. Poi, sempre per abbattere i simboli, si sta tentando di indebolire l’accordo Cattolica-Generali, che ha tolto dal mercato della speculazione una società che fattura 7 miliardi e che negli ultimi 10 anni ha distribuito 480 milioni di dividendi, salvo il 2020 quando Ivass e le autorità europee hanno imposto a tutte le società di sospendere prudenzialmente i pagamenti.
L’ingresso di Generali in Cattolica, attraverso un aumento di capitale dedicato da 300 milioni, porta la società veronese ad un matrimonio tutto italiano, anzi nordestino, come si diceva un tempo. Una soluzione, ricercata con dedizione dal presidente e dall’Ad, Carlo Ferraresi, che tutela quello che soprattutto per il presidente è il bene supremo: il radicamento veronese della società, la sua italianità, la difesa dei suoi dipendenti e agenti. La scelta, dunque, di sposare Cattolica con Generali è qualcosa che non va giù a chi voleva la società veronese contendibile e che in questi ultimi due anni si è dato da fare nascondendosi dietro uno sparuto gruppetto di soci dissidenti (lo 0,3% del capitale) a sporgere denunce su denunce (quella al tribunale di Venezia è stata già rispedita al mittente come infondata) ed esposti alle autorità di vigilanza, per mettere sotto scacco l’azienda. In molti si domandano infatti perché Ivass ha imposto un aumento di capitale da 500 milioni di euro (impossibile da realizzare nella forma cooperativa) a fronte di una sola settimana di Solvency sotto la soglia di sicurezza. Solvency che è sempre stata negli ultimi anni costantemente sopra il 160%, scesa momentaneamente a 103% nella settimana del 15 maggio, e poi risalita al 140% già a giugno. Ora vicina al 200%.
Una Solvency indebolita dalla gran quantità dai prodotti inefficienti dal punto di vista del capitale venduti nella JV di bancassicurazione con il Banco, eredità dell’onerosa acquisizioni da 750 milioni su cui Ivass ha chiesto spiegazioni, operazione proposta e difesa nei due anni di gestione Minali – nella quale si sono moltiplicati i dirigenti, fatte oltre 200 assunzioni e anche i costi della società – nel sogno di fare di Cattolica una piccola Generali, da dove l’ex Ad era stato defenestrato nel 2017 più o meno con le stesse motivazioni poi sostenute dal board veronese: “E’ venuta meno la fiducia nell’Ad….”.I conti, se pure in un anno funestato dal Covid, non sono mai stati in disordine. Cattolica ha chiuso il 2019 con un utile di 75 milioni e una raccolta di circa 7 miliardi di euro. E si prevede nel 2020 un risultato operativo di circa 375 milioni. Una società sana, dunque, con l’unico neo di essere un boccone prelibato per l’alta finanza internazionale.
E ancora domande inevase ci sono sulle ispezioni di Consob e della stessa Ivass sulla governance (quest’ultima ha fatto un duro richiamo e l’azienda ha promesso “tempestivi” rimedi per correggere la rotta) della società e sull’indagine della Procura Veronese sulla gestione delle assemblee dei soci. Certo, quello di Cattolica non è un Cda di premi nobel dell’economia, ma di seri professionisti e imprenditori locali, tutti con un curriculum in linea con le severe richieste dei regolatori. Ma contro la corrente puoi nuotare a breve. Così anche l’instancabile Bedoni ha dovuto arrendersi ai tempi nuovi e celebrerà presto la sua ultima assemblea, quella della rivoluzione compiuta della trasformazione in Spa. Cosa ne perderà il sistema veneto? Forse grazie a Generali molto meno di quanto si sarebbe misurato se a conquistare Cattolica fosse stato un fondo internazionale, che mira a valorizzare e vendere a qualsiasi prezzo, con tagli e razionalizzazioni che sarebbero stati come un coltello nella carne viva per una società come Cattolica che del rispetto della persona, nel solco della dottrina sociale della Chiesa, ha sempre fatto un principio non negoziabile.
Una Chiesa che, solo a Verona, ha iniziato una campagna contro la scelta industriale di legarsi a Generali che molti, soprattutto a Roma, non hanno compreso: ma la Diocesi non dovrebbe occuparsi dei fedeli e del bene comune invece che di una compagnia assicurativa nazionale e quotata? Il parlare di impresa e discutere di scelte strategiche per il tessuto industriale di un territorio rimane una prerogativa della politica e di Confindustria o dovrà in futuro essere demandata ai Vescovi? Questi quesiti non hanno avuto grandi risposte perché la bramosia di conquistare potere da parte di alcuni personaggi locali – in passato anche allontanati da Cattolica per investimenti rischiosi che hanno provocato pesanti perdite – ha trascinato proprio la Curia di Verona in territori a lei ignoti e in polemiche inusuali. Infine, vedremo come andrà a finire con H-Farm, altro punto di attenzione dei regolatori e che ha ben poco a che vedere con la solvibilità, a differenza della JV con BPM. Il campus educativo alle porte di Venezia, dentro la tenuta agricola di Ca’ Tron proprietà di Cattolica, e sostenuto da Cassa Depositi e Prestiti, si inserisce nel trend mondiale di crescita del business della formazione: una società fondata da Donadon, brillantemente esaltato dai media e dalla politica negli ultimi 10 anni per i suoi successi, che dopo gli investimenti di questi anni si appresta ad una crescita vorticosa. Ma anche un progetto del territorio, per il territorio. Una vocazione di Cattolica per spirito e valori.