L’assenza dei cattolici dal dibattito pubblico appare flagrante e, seguendo l’analisi di Ernesto Galli della Loggia – che replica all’invito di Andrea Riccardi ad un ritorno dei cattolici all’impegno culturale e politico – una tale assenza è da ricondurre ad una divaricazione delle diverse culture interne al mondo cattolico e spesso non riconducibili ad un’identità comune. Per Galli della Loggia il mondo cattolico non è riuscito a trovare delle risposte all’altezza della sfida della secolarizzazione. I progressivi adattamenti che si è andato imponendo nei confronti di quest’ultima lo hanno condotto ad una inevitabile scomparsa dal dibattito.



Questo è certamente vero, ma costituisce l’unico elemento? Possiamo veramente limitarci a imputare l’assenza ad un’incapacità intellettuale acclarata?

Non più tardi di quindici anni fa, nel 2007, il Family day portava in piazza masse inattese. In Francia la stessa richiesta di referendum richiesto dai cattolici della Manif pour tous era stata cassata dal governo di François Hollande per timore che la conta referendaria, rischiando di prevalere, avrebbe posto in crisi il cammino di un’intera cultura dell’emancipazione dai vincoli naturali, che ha invece potuto proseguire per la propria strada.



Il Family day, che continua ad esistere anche se potentemente silenziato sul piano mediatico, è la punta dell’iceberg di un universo cattolico di fatto per nulla relegabile al passato. Più di recente, nel 2020, la decisione di chiudere le chiese a causa del Covid ha sollevato, sempre in Francia, proteste inattese e vistose da parte dei fedeli.

Sono fenomeni che avvengono su piani totalmente diversi e non è un caso se il dibattito in Francia sulla “fine del credere” si sia comunque sviluppato in modo costante negli anni successivi e non abbia affatto preso in considerazione questi pur cospicui episodi di visibilità sociale e di partecipazione politica espressi dal mondo cattolico.



Alla tesi di Galli della Loggia circa l’irriducibilità delle singole posizioni e quindi ad una “mancata consistenza” di un piano comune, si può tuttavia affiancarne un’altra: quella di un silenzioso dissenso nei confronti della lunga marcia dei diritti individuali – una prospettiva immediatamente liquidatoria di qualsiasi legame sociale e in particolar modo di quello religioso – che occupa tutti gli spazi mediatici possibili, fino ad arrivare a formulare la richiesta di diventare parte integrante del progetto educativo.

Questa lunga marcia dei diritti, che va dal riconoscimento delle nozze tra coppie dello stesso sesso al diritto all’autodeterminazione circa il proprio genere e del proprio fine-vita, procede in modo tanto più efficace quanto più si avvale dello sbarramento creato dalle diverse emergenze, economiche, sanitarie e geopolitiche.

In pratica da un lato si sta svolgendo una partita sempre più delicata e sempre meno penetrabile ad analisi non specialistiche: l’economia nazionale, la pandemia del Covid e l’invasione russa dell’Ucraina rinviano tutte ad altrettanti piani sui quali il dibattito politico non può procedere senza acquisire delle conoscenze adeguate, finendo spesso – come è avvenuto nel caso del Covid – a rivolgersi all’universo degli esperti che tuttavia è ben lontano dal parlare con una voce sola.

Dall’altro si assiste ad un innaturale irrigidimento del dibattito, una vera e propria “guerra delle idee” nella quale i diktat si sono susseguiti con un’evidenza sbalorditiva. Qualsiasi opinione diversa sulla pandemia è stata immediatamente etichettata come negazionista e imparentata con tesi delle quali si fa fatica a scorgere la consistenza. In pari modo qualsiasi distinguo sul conflitto russo-ucraino è stato immediatamente classificato come una legittimazione implicita dell’invasione e chiunque si avventuri in quella direzione pone a serio rischio la propria reputazione, qualunque ne sia la consistenza.

Non è un bel procedere. Il clima da nuova caccia alle streghe e la “mostrificazione” dell’avversario sono i principali limiti di ogni dibattito democratico, ne impediscono lo sviluppo. Ci sono troppe “parole d’ordine” in giro sostenute con un atteggiamento intimidatorio a partire dal quale il “politicamente corretto” è diventato norma di fatto.

Il fatto che i cattolici parlino poco o nulla non è affatto privo di legami con un tale clima, dove il dibattito politico appare bloccato sul nascere. Il silenzio dei cattolici è parallelo a quello della politica.

Fino a che punto questo primato costante delle emergenze, la cui importanza appare fuori discussione, non sta celebrando i funerali di qualsiasi riflessione culturale più ampia? Fino a che punto, accanto al necessario ed inevitabile fare fronte alle emergenze, non si stanno imponendo dei veri e propri diktat culturali rispetto ai quali qualsiasi difformità dalla linea dominante è immediatamente sanzionata? Il silenzio dei cattolici non è forse la prima e più scoperta manifestazione del silenzio di tutti?

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