Domenica scorsa, a Trieste, si è conclusa la 50esima Settimana sociale dei cattolici in Italia. Molti interventi, diversi richiami, numerose analisi, interessanti sottolineature. Papa Francesco ha concluso i lavori con un discorso molto articolato nel quale, a un certo punto, ha detto: “Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile, questo, dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto”.
Tra questi grandi politici c’è, senza ombra di dubbio, Aldo Moro. Nel 1942 scrive una lettera all’amico Agostino Saviano nella quale si esprime così: “Mi pare che nella vita per fare qualcosa di grande e di buono, e perciò di duraturo, occorra saper pagare di persona, facendosi attori e veri partecipi poi del grande dramma. Le forme di questa partecipazione possono certo mutare, ché il destino non è uguale per tutti; ma, finché questa partecipazione non vi sia, finché si resti freddi spettatori senza avventura e senza dolore, tant’è come non vivere. Ché la storia si fa senza e contro quelli che non conoscono la ferita che fa sangue e non sanno cosa sia il dono dell’amore”.
Affrontando il grande tema della “partecipazione” alla vita sociale non possiamo essere ingenui. Talvolta pare di entrare in una fortezza già occupata da vari poteri che non permettono a nessun altro di introdursi. O diventi uno di loro, oppure sei fuori. Negli ultimi decenni mi pare di vederne uno che, con particolare energia, sia riuscito a prendere il sopravvento: il potere burocratico.
La burocrazia si presenta come una vera e propria antagonista della democrazia, anche se si traveste da garante. Agisce nell’ombra, non ha volto e non ha nome, tesse una trama sempre più fitta di condizioni e procedure che solo alcuni riescono ad attraversare. Come una vecchia arpia cerca in ogni modo di spegnere qualsiasi entusiasmo e iniziativa, in modo che tutto cammini lentamente senza concludere nulla. È in grado di scatenare le guerre più feroci tra gli uomini che, cadendo nella sua trappola, si convincono di essere nemici.papa vesco
Si nutre di etichette e sigle, regole e norme, formulari e procedure, in un continuo rimando a chi avrebbe una responsabilità superiore. Come un vero e proprio muro di gomma ha come unica preoccupazione che non nasca nulla di nuovo, spesso trasformando chi le si affida (Stato, istituzioni…) in una realtà da cui doversi difendere. Per questo ha tutte le caratteristiche di un potere vero e proprio. Nel tempo, una società in balìa di questa sorta di strega bianca (per rubare il personaggio a Lewis e alle sue Cronache di Narnia), si congela e moltissimi perdono le ragioni di un impegno personale, così che si arriva, come nelle recenti elezioni europee, alla più bassa percentuale di persone che è andata a votare, meno di un elettore su due.
“Tanto non cambia niente” mi hanno detto in molti. E non hanno tutti i torti. La disaffezione alla vita politica, certamente, dipende anche da altri fattori più profondi che, in ultima analisi, potremmo riassumere in una carenza del gusto stesso di vivere. Per cui all’origine del “tanto non cambia niente”, si nasconde il “tanto non cambierò mai”. Qui sta la questione: cosa può permettere un vero cambiamento? Che riguardi me, prima che il mondo intorno a me.
Sia il card. Matteo Zuppi, sia Papa Francesco, hanno osato introdurre il vero protagonista: l’amore. Ha detto il cardinale lo scorso 3 luglio nel discorso di apertura della settimana: “Ecco quale è la vera rilevanza della Chiesa e dei cristiani: l’amore per Cristo che la porta necessariamente a quello per i suoi fratelli più piccoli”. E in un passaggio precedente aveva chiarito che “La Chiesa parla perché è libera e ha uno sguardo amorevole e benevolo verso ciascuno: di tutti è amica e preoccupata, nessuno è per lei nemico”.
Il fatto cristiano si è presentato nella storia portando con sé tutta la carica di questo nuovo mondo. Gesù non ha aggiustato quello che ha trovato, non ha chiesto sacrifici per sopportare quello che c’era, ma ha introdotto una realtà nuova, compresi i dettagli delle conseguenze sociali di tale novità. Viene subito alla memoria la Lettera a Diogneto, scritta probabilmente nella seconda metà del II secolo, in cui l’autore descrive in modo unico la novità di vita dei primi cristiani, riassumibile nella famosa frase: “I cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo”. La Passione, con la rivelazione della signoria di Cristo persino sulla morte, rappresenta il vertice di questa novità.
Anche al tempo di Gesù, infatti, in molti si aspettavano un cambiamento che fosse anzitutto politico, visibile, incontrovertibile. Del resto era un popolo occupato che desiderava giustamente tornare libero. La delusione per il metodo di Cristo, però, entrò nel cuore di tanti che, uno dopo l’altro, lo lasciarono. La liberazione che era venuto a portare era di ben altra natura e non retrocesse neppure di un millimetro sul cuore della vera sfida: cosa rende libero l’uomo. Nella vicenda di Pietro, che vuole insegnare a Gesù come essere Figlio di Dio (cfr Mc 8, 31-33), in un certo senso si danno appuntamento tutte le obiezioni. Cristo smaschera il pensiero “secondo gli uomini”, dettato dalla preoccupazione di imporsi e di avere l’ultima parola, oppure dall’essere “freddi spettatori senza avventura e senza dolore”. Il “pensiero secondo Dio”, invece, è appunto l’amore, il pagare di persona, l’essere presenti con il proprio volto dentro le pieghe della realtà, avendo come prima urgenza il cambiamento di sé.
Questo toglie ogni possibile ambiguità anche al concetto di “partecipazione” che non sarà, quindi, l’occupazione di spazi, la ricerca di complici o il corteggiamento dei potenti, ma l’avvio di processi, come ricorda spesso il Papa. Chi è, però, il soggetto di questa “partecipazione”? Il soggetto dell’azione politica, hanno detto sia il card. Zuppi che Papa Francesco, è la comunità cristiana e non solo il singolo che decide di fare un passo. Per questo il Papa ha anche richiamato alla necessità di continuare a usare il termine “popolo”, e ha descritto l’azione del vero politico: “Davanti al popolo per segnalare un po’ il cammino; in mezzo al popolo, per avere il fiuto del popolo; dietro al popolo per aiutare i ritardatari. Un politico che non abbia il fiuto del popolo, è un teorico. Gli manca il principale”.
Questa consapevolezza consente di non dimenticare l’origine di qualsiasi mossa, anche quella politica: la chiamata di Dio. I cristiani rispondono anzitutto a una Sua chiamata, prima che alla voce del partito di riferimento. Appena si perde la coscienza vocazionale della vita, o della politica, all’istante di insinua quella egemonica, con il risultato che tutti si mettono contro tutti, come se non ci fosse nessuna appartenenza più decisiva che viene prima: il battesimo. Proprio nel battesimo l’amore si presenta come il vero antipotere. Dio mette in noi un seme di novità, senza condizioni. Don Luigi Giussani lo scriveva già molti anni fa in un suo famoso testo: “L’antipotere è l’amore: e il divino è l’affermazione dell’uomo come capacità di libertà, cioè come irriducibile capacità di perfezione, di raggiungimento della felicità – come irriducibile capacità di raggiungere l’Altro, Dio. Il divino è amore” (Luigi Giussani, Il senso religioso, BUR, Milano 2010, p.127).
Questo antipotere è l’unico in grado di entrare nella fortezza occupata e liberarla, mostrandosi come il solo in grado di rispondere alla domanda di giustizia, di verità, di felicità, che alberga nel cuore di ogni uomo. Noi, dunque, non riponiamo la speranza nella politica, e neppure in noi stessi, magari cercando di piazzarci o di piazzare gli amici nei punti chiave della società, ma rispondiamo a una chiamata. E se, per fare questo, qualcuno dovrà ricoprire qualche ruolo di responsabilità, sarà bene che non sia lasciato solo, pur assumendosi personalmente oneri e onori del caso. La società ha bisogno di Colui che chiama, perché l’“amore politico” non rimanga un’idea teorica per addetti ai lavori. Il mondo ha bisogno di uomini e donne con il loro volto, perché le grandi proposte della Dottrina sociale della Chiesa non siano ricoperte da stucchevoli discorsi in grado di far morire qualsiasi ideale. C’è bisogno di me e di te, ciascuno al suo posto, perché dalla vita del nostro popolo fioriscano ancora figli disposti a pagare di persona. Occorrono persone libere che dicano il loro “sì” alla possibilità del cambiamento di sé, perché lo Stato non sia fatto coincidere con le sue istituzioni, la Patria con un’immagine astratta di comunità, l’uomo con una riduzione ad alcuni dei suoi fattori. Questo mi pare essere il “cuore della democrazia”.
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