S’è diffusa da qualche tempo, nella nostra società, l’idea che avere un’identità di qualsiasi genere sia cosa negativa. Che essere “parte” ostacoli ogni possibile composizione dei conflitti o degli interessi diversi e contrapposti. Neppure la Chiesa è immune di fronte a questa tentazione di irenismo civile. Si tratta di una visione che postula una sorta di terzietà infinita e perennemente rimodulata rispetto ad ogni forma di appartenenza, in cui il cosiddetto “bene comune” (parola così obsoleta e vaga da risultare non solo vuota, ma anche talvolta irritante) andrebbe ricercato al di fuori della naturale – e insopprimibile – esigenza di individualità che caratterizza ogni essere umano.
Che si tratti del genere o dell’appartenenza politica, del gusto culinario o musicale, etc. sembra che sia diffuso un certo fastidio per chi tiene al proprio stesso odore, al proprio pensiero, al proprio io identificativo, anche se inevitabilmente parziale.
Inutile dire che ci troviamo nel bel mezzo dell’astrazione che connota ormai questo nostro tempo. Un’astrazione che ha annacquato ogni fascino per l’esperienza (che si tratti della libertà o della cultura, della fede e perfino dell’amore) in una sorta di melassa antropologica, in cui essere orgogliosamente qualcuno è guardato con sospetto.
Sul piano politico la questione appare ancor più evidente. Non solo il fastidio per il “partito”, costruzione eminentemente novecentesca, è così generalizzato da far apparire ogni passione in questo senso con distacco e con sospetto. Siamo lontani anni luce dalla consapevolezza sturziana che solo l’accettazione, in linea di principio e senza riserve, dell’idea di partito avrebbe offerto la possibilità di difendere, nell’arengo di una fragilissima democrazia, gli interessi parziali dei cattolici italiani svincolando la Chiesa da lotte circoscritte e salvaguardando così la sua missione universale. La democrazia appariva allora come il terreno ideale per uno scontro-incontro (come avviene in natura in ogni rapporto umano, a cominciare da quello coniugale) capace di giungere a sintesi utili alla società.
Il cosiddetto bene comune era insomma il frutto di relazioni, spesso anche virili, tra idee e ideali talvolta contrapposti. La nostra Costituzione repubblicana è lì a dimostrare quanto questo sia stato possibile. Non solo: in questa relazione complessa è maturata una cultura politica che ha alimentato il Paese per decenni.
Certo, si dirà, i tempi sono cambiati. Tuttavia non è cambiata la natura dell’uomo, orientato alle scelte, alle appartenenze, anche quando queste sono celate subdolamente in un indefinito antropologico. Io sono di quelli che son cresciuti, fin dai tempi del liceo, con il sospetto e il fastidio per l’indefinito, per quella “maggioranza silenziosa”, a-politica, a-partitica, a-sessuata, che finge di avere tutte le idee senza esprimerne alcuna. Oggi questa realtà indefinita sembra essere invece additata come necessaria nel sostenere percorsi utili a tutti. La democrazia, arengo creativo e combattivo che, umilmente e caparbiamente, costruisce nella storia una società possibile, affidata a questa marmellata in cui tutti i sapori sono mescolati e ridotti ad un dolciastro sociologico che fa male ai denti, deve per forza affidarsi, nell’individuazione dei fini, ad una aristocrazia meritevole. Insomma, sopra la marmellata, non possono che esserci “i migliori”, possibilmente svincolati anch’essi da ogni forma di appartenenza.
Così la tecné, tanto studiata nei suoi risvolti malefici da Emanuele Severino, inevitabilmente si appropria di una morale che non le appartiene, addita alla marmellata il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
Il cosiddetto “bene comune”, un tempo costruito faticosamente da una cultura politica (e filosofica) che non solo giocava le sue carte ma le metteva in tavola, le mostrava senza avere assi nella manica, in questa prospettiva “confetturale” diviene un indefinito comodo, assai malleabile e adattabile, privo di ogni riferimento intellegibile e verificabile. In fondo anche nel Terzo Reich vi era un’idea di bene comune e perfino di legalità (un’altra astrazione che tanto affascina i cattolici).
L’afasia della cultura cattolica, la dismissione di una dottrina sociale sostituita da una vaga dottrina ecologica, ha consegnato i cattolici (pardon, questa è una parola censurabile) ad una sorta di fascino per una terzietà giocata al ribasso. Se la terza via è sempre stata un totem per i cattolici, nella sua versione postmoderna essa appare come un guinzaglio, e neanche troppo allungabile. D’altronde, avendo assai poco da dire, almeno lasciamoli annuire.
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