Caro direttore,
nel tentativo di chiarirmi le idee sulle prossime elezioni, mi è tornata in mente la battaglia condotta da Papa Benedetto XVI contro il relativismo, citata anche dal cardinale Matteo Zuppi nella sua intervista al Sussidiario. Un relativismo che “non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Nei suoi interventi sull’argomento, Papa Benedetto segnalava come questo relativismo diventasse “un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione”, finendo poi per costituire una vera e propria dittatura del relativismo. Ciò che sta avvenendo in Occidente in questi ultimi tempi.



Un esempio significativo è dato dalla politica “gender”, condivisa da una parte non indifferente del nostro apparato partitico e mediatico. Si è partiti da una giusta preoccupazione che le persone omosessuali non fossero ingiustamente discriminate, e tantomeno perseguitate, per giungere poi a una sostanziale eliminazione delle differenze sessuali. Ancor più, in questa mentalità che continua a farsi strada nella nostra società, si sostiene in pratica l’inesistenza di un sesso definito, essendo l’appartenenza sessuale la risultante di una posizione psicologica e da essa regolata. Quindi, una persona può sentire di appartenere a un sesso diverso a secondo delle proprie sensazioni del momento: appunto, “come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”, con totale spregio della realtà.



Un processo simile è avvenuto per l’aborto. Si è iniziato con il constatare che gli aborti avvenivano clandestinamente con grave rischio per le donne e che era necessaria una regolamentazione per renderli più sicuri. In questa prima fase l’accento rimaneva sulla necessità di proteggere la procreazione e di cercare di aiutare le donne e le loro famiglie ad evitare la tragedia dell’aborto. Si è poi però cominciato a sostenere che il feto era un grumo di cellule di cui si poteva disporre. Tesi questa insostenibile da un punto di vista razionale e scientifico, per cui si è passati a stabilire un limite temporale per gli interventi abortivi, definito dalla capacità del bambino di sopravvivere nel caso di nascita prematura. Anche qui ben poco di razionale, come ha fatto notare l’australiano Peter Singer, professore di bioetica e convinto abortista, che sostiene non esservi differenza tra il feto e il neonato, per cui dovrebbe essere autorizzato l’infanticidio come l’aborto. Soprattutto per bambini disabili e con il consenso dei genitori.



I progressi della scienza consentono ora di percepire il battito del cuore del feto a partire dalla sesta settimana, cosa che ha definitivamente messo in evidenza che il feto è un essere umano vivente e che, di conseguenza, l’aborto è un omicidio. Essendo difficile far recepire alle masse il discorso del professor Singer, che non ha remore nel definire l’aborto un omicidio, si è cambiata radicalmente la posizione. Ora l’ideologia che si cerca di imporre è che l’aborto è un diritto della donna e come tale intoccabile e insindacabile. In questo modo viene relativizzata la stessa vita umana nel suo nascere e il bambino nel grembo materno viene ridotto a un oggetto di cui si può disporre a volontà. E infatti, come ogni prodotto, la sua “produzione” può essere commissionata e il “prodotto” ritirato a suo tempo dal committente. È quanto avviene nel cosiddetto “utero in affitto”.

Relativizzato così l’inizio della vita occorreva effettuare lo stesso processo per la sua fine, ed ecco l’eutanasia, la “buona morte” o, più crudamente, il “suicidio assistito”. La morte non è più quel fatto ineluttabile che accomuna tutti gli esseri viventi, anch’essa viene relativizzata alla volontà del singolo, anch’essa diventa un ”diritto” dell’uomo, che può essere esercitato anche da altri, “ovviamente” per il suo bene e, magari, anche per il bene della società.

Un delirio di onnipotenza che vorrebbe far credere all’uomo di poter essere l’unico padrone di se stesso, in realtà ponendolo alla mercé di chi governa queste ideologie traendone vantaggio. Si afferma il diritto affermandone il suo rovescio, in una continua negazione della realtà e un progressivo addentrarsi nella notte della ragione.

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