Egregio direttore,
ho letto la lettera di Filippo Campiotti che interviene a proposito dell’articolo di Galli della Loggia “L’eclissi dei cattolici in politica” (Corriere della sera, 20 agosto), pubblicata il 3 settembre. So che Campiotti è candidato alle prossime elezioni per il cosiddetto “terzo polo” (Renzi-Calenda), ma questo credo sia irrilevante. Leggendo la sua lettera, però, sono emerse alcune considerazioni che vorrei condividere.



Che i cattolici siano liberi di votare per chi vogliono o di impegnarsi in qualsiasi partito, mi sembra una considerazione abbastanza ovvia. Un mio amico colto e fine conoscitore della storia della Chiesa dice che “la Chiesa fin dal 1871 ha scelto di accettare il pluralismo delle opzioni politiche”. Mi sembra che molti (compreso Campiotti) cerchino delle giustificazioni ove non ve n’è alcun bisogno. È un dato. Ricercare nella dottrina della Chiesa le giustificazioni per le proprie scelte o parlare di un’identità dei cattolici “incontenibile” e come tale giustamente reperibile in qualsiasi schieramento o partito, a mio parere non aggiunge niente e non dice nulla di nuovo.



Ci sono però due semplici domande che secondo me è opportuno farsi.

Va bene, i cattolici portano “il loro sale” dovunque e quindi è normale (per alcuni anche opportuno) che votino e si impegnino (terrei le due cose distinte) in qualsiasi schieramento o partito. Ma perché? Perché succede? Cosa porta due persone che vivono la stessa esperienza di fede a scegliere di votare e in alcuni casi di impegnarsi pubblicamente per/in due partiti o schieramenti diversi che necessariamente avranno visioni diverse e non solo sui temi strettamente etici o sui valori non negoziabili? Ovviamente non ho la risposta (se esiste), ma vedo che molti non si pongono nemmeno la domanda. E non credo che il motivo possa essere rintracciato solo nel venir meno della Dc. Né la risposta può essere semplicisticamente che i cattolici sono liberi; la libertà è lo strumento che ti porta a fare delle scelte, non il motivo per cui le fai.



La seconda domanda. Posto che la politica è affare molto concreto, che chi fa politica lo fa per poter contare e contando per poter intervenire sulla realtà a partire da ciò in cui crede, può aver senso augurarsi che i cattolici siano due (numero indicativo per dire “poco”) in ciascuno dei 10-15 (?) partiti che si presentano alle elezioni del 25 settembre? Ci accontentiamo, come cattolici, di essere dovunque senza poter contare nulla? In politica è quindi sufficiente “testimoniare”?

Da ultimo: non c’è il rischio che a questa “presenza diffusa” dei cattolici nei partiti, segua, nel tempo, un venir meno dell’identità comune, che più comune non sarà?

Cordialmente

Luigi Galluppi 

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