C’è una sequenza, forse la migliore, di C’è ancora domani, il film d’esordio alla regia di Paola Cortellesi che è stato scelto per aprire la Festa del cinema di Roma, posta prima del finale, che dice cosa il film poteva essere: è la sequenza della veglia funebre a nonno Ottorino (Giorgio Colangeli), un viavai di personaggi, microgag e battute, romanità verace, tensione psicologica e ritmo perfetto. Il film, però, non è a quest’altezza e in più di un’occasione lascia dubbi.



Protagonista del film è Delia (la stessa Cortellesi), proletaria romana alla vigilia del referendum istituzionale del ’46, che subisce le angherie del marito Ivano (Valerio Mastandrea), rimpiange la possibilità di una vita più felice con un elettrauto (Vinicio Marchioni) e spera che la figlia (Romana Maggiora Vergano) possa sposarsi con un uomo migliore del suo. Finché un giorno capisce che il futuro della sua vita passa soprattutto dalle sue mani.



Scritto dalla stessa regista con Furio Andreotti e Giulia Calenda, C’è ancora domani è una commedia drammatica, girata in un bianco e nero a dire il vero un po’ posticcio, che si ispira al neorealismo più lieve, quello di L’onorevole Angelina (film del 1947 con Anna Magnani) e dei prodromi della commedia all’italiana.

Come nel film di Luigi Zampa, anche in questo il tema centrale è l’emancipazione della donna, la capacità di alzare la testa e non dover chiudere sempre la bocca, dentro la propria famiglia prima ancora che nella società, che in quegli anni concedeva per la prima volta il diritto al voto alle donne. Tolto il fatto che il vecchio film mostrava una società apparentemente più evoluta di quanto non sia quella narrata in C’è ancora domani (e questo è un segnale preoccupante, o forse una semplice convenzione narrativa), il modo in cui Cortellesi costruisce quel messaggio lascia piuttosto perplessi.



Chiara in modo didascalico e ridondante nella descrizione dei caratteri e dei loro obiettivi, la regista cerca di lasciare il contesto storico-politico sullo sfondo (al contrario di Zampa), mettendo in risalto il lato drammatico e psicologico per poi confondere le carte e sfruttare il contesto per facili colpi di scena o, nel caso del finale, per rivelare un discorso che pare più propaganda, una pubblicità progresso (che non staremo a rivelare, ovviamente) nobilissima e sacrosanta, ma che pure pare un topolino partorito. Soprattutto, non convincono le scelte di forma, estetiche: oltre alla monocromia, sembrano stonare gli svolazzi stilistici, i numeri di musical grottesco, il distacco “borghese” che quei momenti di bizzarria segnano rispetto alla materia narrata e che confondono le carte, impedendo di capire se il film voglia nobilitare gli stereotipi con lo stile o se metterli in crisi.

Cortellesi – che come attrice sacrifica la gran parte delle sue doti in un ruolo monocorde – e i suoi sceneggiatori hanno l’intelligenza di piazzare la scena che si citava in apertura e un altro bel momento di cinema, su cui gioca la sorpresa, sul finale, per predisporre al meglio lo spettatore e lasciarlo con un buon sapore. Sembra però un gioco di prestigio più che una reale scelta di campo, che cerca il compiacimento dello spettatore – e stando alla reazione, lo trova -, ma resta in superficie dell’argomento che vorrebbe trattare, nonostante tutti, continuamente, si trovino a ripeterlo.

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