Questa mattina è entrata in santuario (Santuario arcivescovile di San Giuseppe, Milano, ndr) una ragazza che parlava un buon inglese. Mi ha detto che era rimasta colpita dalla bellezza della chiesa e dal clima di raccoglimento che vi ha trovato. Poi con garbo mi ha chiesto informazioni sui bellissimi quadri. Quando mi sono permesso di chiederle da dove venisse mi ha risposto: “I’m from Iran”. Naturalmente era senza velo. Come le quattro ragazze che si trovano in un appartamento che ben conosco e che quando arrivarono in Italia tre anni fa si mostravano ancora impaurite per aver partecipato a una manifestazione di protesta nel loro Paese. La prima cosa che avevano fatto era stata quella di liberarsi del velo. La seconda, il giorno dopo, era stata farsi i capelli biondo platino, che per le ragazze iraniane pare sia un atto di libertà.
Per la verità anche molte suore stanno rinunciando al velo, ma non mi risulta che si tingano i capelli in biondo platino, o in altri stravaganti colori. Il fatto è che un velo può anche dare risalto a dei bei visini sorridenti, mentre il burqa, integrale, quello alla Belfagor tanto per intenderci, non capisco proprio come si possa tollerare. Oltre che affermare una condizione di soggezione della donna pone la domanda: “Chi c’è dentro quel vestito?”. Di per sé potrebbe esserci anche un terrorista o un comune delinquente.
Gli incontri con il mondo islamico in santuario hanno avuto anche una simpatica anticipazione il pomeriggio della vigilia di Natale. È entrata in santuario una ragazza che, dichiarandosi musulmana – come se dall’abbigliamento non si vedesse – ha chiesto un luogo appartato per pregare.
Provate ad immaginare se io avessi chiesto di dire un rosario in una moschea. Purtroppo siamo cristiani e alla richiesta di una ragazza che voleva pregare Dio, che poi è sempre il nostro, ho voluto acconsentire. Certo l’ho fatta stare in una cappella laterale, perché di occupare la chiesa non se ne parla proprio. Almeno finché in questa chiesa ci sono io.
Il finale dell’incontro poi è stato molto divertente. La ragazza, che studia giurisprudenza a Roma, si è rivelata essere del Kazakistan e quando ho cominciato a parlarle in kazako è quasi svenuta. Dopo averle spiegato che quello che era avvenuto non era frutto della sua preghiera, ma di diciotto anni passati in quel Paese ho dovuto acconsentire di parlare al telefono, naturalmente in kazako, con suo padre.
Mentre noi ci raccontiamo questi simpatici episodi, Cecilia Sala è in carcere a Teheran a causa di trame ordite contro di lei. Forse serviva organizzare un ricatto, cosa che mi sembra sia un peccato per i musulmani.
Cara Cecilia, sei troppo brava e anche carina (commento non sessista ma che viene da un sano realismo cattolico) perché possiamo perderti. Per cui oltre che pregare per te possiamo suggerirti, se lo ritieni opportuno, di raccontare gli episodi sopra citati per far capire che qui gli iraniani e i musulmani in genere li trattiamo molto bene.
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