Lo scriviamo per diritto di cronaca ma non pensiamo sia “immaginabile” il dolore e lo strazio che una famiglia può provare nel tentare di consegnare il proprio unico figlio (di 3 anni) a dei soldati di un Paese straniero per poterlo salvare dalla propria nazione invasa dall’estremismo dittatoriale ed islamista. È la storia che arriva dall’Afghanistan di Inas, del marito Salah e del figlio Ayman: lo racconta oggi Greta Privitera sul Corriere della Sera, dopo aver contattato in videochat una delle tante famiglie di Kabul che in questi giorni stanno tentando l’impossibile per raggiungere l’aeroporto internazionale “Hamid Karzai” in modo da fuggire dallo Stato ora in mano completamente ai talebani.
«Non siamo riusciti nemmeno a entrare in aeroporto. Durante il percorso siamo stati fermati due volte dai talebani che sbattevano il Kalashnikov sul vetro della nostra auto», racconta affranta la donna afghana che aveva raggiunto un “patto” dolorosissimo con il marito. Cedere il figlio ai soldati americani qualora non fossero riusciti a fuggire tutti e tre dall’Afghanistan: «C’era una marea di gente davanti all’ingresso. Centinaia di famiglie come la nostra, tantissimi bambini. Ci picchiavano sulle gambe con dei cavi. Avevamo paura che ci sparassero e allora siamo tornati a casa», ha però spiegato Inas sottolineando come per il momento abbiano dovuto rinunciare alla drammatica separazione.
LO STRAZIANTE DOLORE DI UNA FAMIGLIA AFGHANA COME TANTE
La domanda morale e umana è legittima e viene posta con tutta la delicatezza possibile dalla giornalista del CorSera alla famiglia afghana: nel caso fossero riusciti ad entrare nell’aeroporto di Kabul – dato tutt’altro che scontato visto cosa sta succedendo in questi giorni, con già 20 morti solo per la calca all’esterno dello scalo di Kabul – il coraggio di cedere il piccolo Ayman ai soldati occidentali sarebbe venuto meno? Tutt’altro, Inas è convinta e con lei anche il marito: «lo farei anche ora. È da quel giorno che io e mio marito progettiamo di partire: la nostra priorità è mettere al sicuro Ayman e se questo volesse dire separarci da lui saremmo pronti a farlo. Kabul è morte, tutto il resto è meglio. Vi prego, non giudicateci. Siamo madri e padri come voi». Un grido di dolore quello lanciato da questa famiglia, come tante nelle scorse ore in ricerca di un futuro migliore anche solo per i propri figli: «Qui i nostri figli rischiano di essere uccisi o rapiti e addestrati per diventare kamikaze, le nostre figlie rischiano lo stupro. Voi che cosa fareste? Io sono pronta a dargli un futuro e a morire di dolore. Anche le mie amiche dicono la stessa cosa», racconta ancora Inas disperata per la possibilità molto concreta che da un momento all’altro i talebani entrino in casa per punire il padre, ex collaboratore del Governo afghano, «Mia madre, come molte donne afghane, dieci anni fa ha lasciato andare due figli ancora minorenni in Europa, a piedi. Piangeva ogni giorno, non li ha più visti, ma la loro felicità valeva tutto per lei».