Si è conclusa – prevedibilmente con un sonoro ‘nulla di fatto’ – la ormai lunga storia della censura sui social che ha tenuto gli Stati Uniti con gli occhi puntati sui tribunali di mezza nazione, fino ai banchi della Corte Suprema che è giunta (nella giornata di mercoledì 26 giungo) ad una sentenza definitiva e inoppugnabile. Il caso è diventato ormai storico e affondava le sue ragioni nella – presunta, o a questo punto smentita – pressione da parte dell’amministrazione di Joe Biden sulle aziende che gestiscono i vari social network più diffusi che avrebbe causato la censura di alcuni contenuti ‘non allineati’ sulla pandemia da covid e sulle elezioni del 2020 in cui vinse l’attuale presidente Democratico.



A muovere causa dai tribunali locali, fino a quello d’appello ed – infine – alla Corte Suprema era stato un manipolo di cinque privati cittadini sostenuti dallo stato del Missouri e da quello della Louisiana che lamentavano – a causa della già citata presunta censura governativa sui social – una violazione del Primo Emendamento e delle fondamentali libertà di stampa, opinione e parola che sancisce.



Cos’ha detto la Corte Suprema USA sulla censura social: “Nessuna prova di correlazione con Biden”

Prima di arrivare alla sentenza vera e propria da parte della Corte Suprema americana, vale la pena ricordare che – come ricorda il Washington Times – a processo sono stati presentati alcuni documenti che secondo i ricorrenti dimostravano come vari funzionari dell’amministrazione Biden avrebbero avallato la censura sui social. In uno scambio tra un funzionario della Casa Bianca e Meta (l’azienda che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp) il primo si dice “gravemente preoccupato” dei dibattiti che alimentando “l’esitazione nei confronti del vaccino” chiedendo provvedimenti; con la promessa di modifiche – o secondo i ricorrenti di censura – al social per “guadagnare la vostra fiducia“.



Nella prima tappa del processo queste frasi avevano portato un tribunale locale ad emettere una dura ingiunzione contro alcuni funzionari di Joe Biden; mentre la Corte d’appello – pur dando ragione ai ricorrenti sull’ipotesi di censura da parte dei social – aveva ristretto l’ingiunzione. L’ultimo capitolo l’ha scritto la Corte Suprema, che ha dato infine ragione all’amministrazione USA invertendo completamente le prime due sentenze.

Secondo la Corte i querelanti non sono riusciti a dimostrare un “nesso causale” tra le presunte pressioni di Biden e dei suoi sottoposti e la censura messa in atto dai social: quest’ultima non sarebbe una conseguenza diretta dei timori dei funzionari federali, ma una scelta deliberatamente messa in atto dagli amministratori dei network. Nella sentenza manca la firma del giudice Samuel A. Alito Jr che esprimendo il suo fermo “dissenso” ha ricordato che “per mesi, alti funzionari governativi hanno esercitato una pressione incessante su Facebook per sopprimere la libertà di parola degli americani“.