Caro direttore, cari lettori del Sussidiario,
perché dal 9 novembre sono in sciopero della fame? Potrei rispondervi “perché in questo Paese, da troppo tempo, si consuma impunemente un attentato contro i diritti politici del cittadino (art. 294 c.p.)”. Attentato di recente reso manifesto dall’assenza di un reale dibattito su un referendum costituzionale che ha mutilato Camera e Senato, riducendo ancor più il Parlamento della Repubblica a un bivacco. E invece vi dirò che sto dando corpo, gambe e braccia alla mia fame di democrazia contro ingiustificabili atti di censura, degni di regimi orwelliani, e per porre la questione dello strapotere che hanno alcune potenti multinazionali come Google. Dopo uno stillicidio di atti censori, il mio canale Youtube è stato cancellato e con esso sono stati rimossi circa 17 anni di lavoro (interviste, reportage, approfondimenti, ecc.).
Come se non bastasse, il novello “Ministero della Verità”, che si avvale della collaborazione di una più che efficiente e solerte Psico-polizia non immune da conflitti d’interesse, mi ha comunicato la mia definitiva espulsione dai suoi canali di comunicazione. Di fatto mi è stata comminata una condanna alla latinissima “damnatio memoriae”. Una purga di stampo stalinista. Ritengo che quanto mi è capitato sia la spia di una deriva molto pericolosa, una vicenda paradigmatica. I cosiddetti social, pur essendo proprietà di aziende private, a mio avviso devono essere considerati un bene comune e non possiamo accettare che essi agiscano fuori dal solco dell’art. 21 della Costituzione e dell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
No, non sto proponendo una espropriazione; sto semplicemente affermando che occorrono delle regole da imporre a lorsignori e che è quanto mai urgente porre la questione a tutti i livelli istituzionali, italiani e non.
Non possiamo consentire a Google, Facebook o Twitter di vestire contemporaneamente i panni del giudice, della giuria, del pubblico ministero e del boia, senza che ci sia una reale e concreta possibilità di difendersi. Non sono disposto ad accettare che quel che è capitato a me, capiti domani ad altri. Non possiamo non tenere nella dovuta considerazione il fatto che oggi tutti i principali media sono presenti su queste sedicenti “piattaforme”.
Cosa chiedo attraverso questo mio dialogo nonviolento? Chiedo che a livello nazionale l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa intervengano sulla purga che mi è stata comminata e rispondano pubblicamente alle questioni che sto sollevando.
Il mio non è un ricatto, nella misura in cui sto chiedendo un atto dovuto. Dovuto perché le questioni che da una vita provo a trattare e sulle quali provo a riflettere riguardano quel diritto umano alla conoscenza che è sinonimo di democrazia. A volte, quando ho dei momenti di sconforto, quando osservo i “due minuti d’odio” che periodicamente vanno in scena, mi sento come un confinato.
A darmi conforto nella compresenza è il buon Ernesto Rossi, che nel settembre del 1933 scriveva: “Anche se la giustizia non è nel mondo, è nei nostri cuori. Si deve fare quel che si reputa giusto, non perché la giustizia avrà successo, ma perché l’ingiustizia è per noi ripugnante: consentire a quel che si reputa ingiusto è degradarci ai nostri propri occhi”.
La mia fame di democrazia, conoscenza, libertà e diritti umani è di certo nutrita da tutti coloro che mi stanno manifestando stima e affetto, dall’ora d’aria che quotidianamente va in onda su Radio Libertà grazie al direttore Giulio Cainarca, e dalle parole del Presidente della Repubblica che, intervenendo a giugno dalla tribuna del congresso USPI, ha testualmente affermato: “La autenticità dell’informazione è affidata, dalle leggi, alla professionalità e deontologia di ciascun giornalista. Sarebbe fuorviante e contraddittorio con le stesse disposizioni costituzionali immaginare che organismi terzi possano ricevere incarico di certificatori della liceità dei flussi informativi”.
Dobbiamo stare davvero attenti a nuove striscianti forme di totalitarismo; attenti al topolino de La Peste, perché, per dirla con le parole che Camus fa pronunciare al dottor Rieux, il bacillo della peste non muore mai. Evocando san Paolo, allora dico: “Spes contra spem”.
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