Il film Cento domeniche di Antonio Albanese rappresenta l’occasione per ricordare una delle più grandi sciagure bancarie mai avvenute in Italia, il crack delle grandi casseforti del Veneto: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

La pellicola ripercorre la storia di Antonio Riva, operaio metalmeccanico in prepensionamento che, causa il fallimento della sua banca, si ritrova senza soldi. È il suo istituto di credito, lì ha messo i suoi risparmi, circa 80mila euro, che un solerte direttore ha convertito in azioni della stessa banca. Quando il Riva va in filiale per chiedere di girare i suoi soldi sul conto corrente per pagare il matrimonio della figlia, gli dicono di tenere le azioni e accedere a un prestito che avrebbe pagato con gli interessi. Lui si fida. E firma quei moduli che lo condannano.



Un film duro. Che non lascia spazio a sentimentalismi o altro. E che racconta quello già successo nel 2016. Ancora una volta la realtà che, questa volta anticipa, e supera la fantasia.

All’epoca Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca erano due realtà solidamente legate al territorio. Luoghi a cui la gente affidava i suoi “schei”, spesso i risparmi di una vita, con la certezza che lì sarebbero stati al sicuro. D’altra parte come non fidarsi del direttore della banca o dell’impiegato con cui vai a bere il caffè tutti i giorni, che vedi sempre in chiesa, che incontri la domenica al campo sportivo. “Buongiorno Direttore, come sta? E la sua signora? E i bambini?”.



Per non parlare poi di Gianni Zonin, il Presidente della banca, un autentico Doge che dispensava benedizioni a tutti, potentissimo e riverito. Sia dai notabili, sia dai politici locali. Come pure dalla gente comune che vedeva in lui il geloso custode delle ricchezze sue e dei veneti. Forse qualche dubbio in proposito avrebbero dovuto averlo. Dice un vecchio proverbio veneto: “L’omo da vin no ‘l vale on quatrin”…

Nella primavera del 2016 le due banche vanno in default. Tutto crolla, tutto in frantumi, tutto spazzato via da uno tsunami che nessuno, tranne i diretti responsabili, avrebbe mai potuto prevedere. In un misto di “violazioni, connivenza, omertà sottotraccia, servilismo fantozziano e obbedienza ipocrita al grado gerarchico del capoufficio” come scrisse bene Marco Alfieri su Il Foglio.



Eh sì perché chi era all’interno sapeva. Sapeva che la Popolare di Vicenza stava traballando. Che occorreva mettere degli argini forti. Che bisognava mettere tutto in sicurezza. Che occorreva spingere sull’acquisto delle azioni.

Così, per le aziende che andavano a battere cassa, la risposta era semplice: “Vuoi un fido? Non c’è problema: acquista delle azioni della Pop Vicenza. Sono una certezza. Valevano 48 euro, ora sono a 62. Cosa vuoi di più”. E l’imprenditore, di fronte a un vero e proprio ricatto (ma allora non lo vedeva così) alè a comprare azioni.

Sicure, sicurissime come aveva confermato un professorone della Bocconi di Milano che, chiamato a ribadire il valore a 62 euro, dopo attenti calcoli aveva confermato: “Ok, il prezzo è giusto!”.

Alla fine in 110mila avevano acquistato, a cuor leggero, le azioni della “loro banca”. Invece no – come spiega bene Fabio Bolognini, blogger brillante ed esperto di sistemi bancari – c’erano: “Dipendenti di vario livello e anzianità non sempre con la pistola del capoufficio alla tempia, a conoscenza, o persino firmatari di prestiti deliberati alle società dei consiglieri in conflitto d’interessi; uffici crediti in grado di sapere che la situazione dei prestiti deteriorati era valutata in modo sbagliato e priva di accantonamenti adeguati; processi gestionali e contabili non all’altezza; ispettori mansueti anche su operazioni d’investimento in fondi esteri con rischi elevatissimi”. Una situazione esplosiva, scoperta solo grazie a una ispezione della Bce. Che ha fatto saltare il tappo. Come in un vaso di Pandora, da cui è uscito tutto il peggio. Così da 62 euro le azioni di Pop Vicenza crollano a un valore compreso fra uno e tre euro.

Raccontava una signora proprietaria di un negozio di fiori: “Il problema non sono solo i miei risparmi che ho perso, circa 50mila euro. Adesso non entra più nessuno in negozio. I soldi per adornare una tomba, abbellire una tavola, fare un regalo non ci sono più. E io sono cornuta e mazziata due volte”.

C’è poi il caso dell’imprenditore vicentino che, con gli amici, si vantava di avere messo in cassaforte i suoi guadagni: “Sono tutti in azioni della Popolare di Vicenza. Le ho comprate a 40 euro, adesso sono a 62. Ma che affare ho fatto…”. Per l’appunto, un magro affare. Qualche settimana dopo il default l’imprenditore raduna tutta la sua famiglia intorno a sé: “Ragazzi, non abbiamo più nulla. L’unica ricchezza è questa nostra azienda. Rimbocchiamoci le maniche. E ripartiamo da zero”.

Ma la tragedia non si è fermata solo ai soldi. Ci sono stati anche suicidi. Gente che pensava di aver messo da parte un gruzzolo per poter vivere serenamente gli ultimi anni della sua vita si è ritrovata con nulla fra le mani. Gente che aveva acceso il mutuo per la casa si ritrova con il conto azzerato e l’acqua alla gola, pressata dalle scadenze. Che fare poi se vedi svanire tutto a un tratto i risparmi di una vita?

Ci si chiede ancora: dov’erano i controllori? Quelli che paghiamo profumatamente per verificare che nel nostro sistema bancario sia tutto in ordine? Dov’era Banca d’Italia? Dov’era il Governo? Perché si sono mossi così in ritardo?

Andate a vedere Cento domeniche. Non riuscirà a rispondere a queste domande. Ma almeno vi sarete resi conto di come funziona il sistema bancario in Italia.

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