Lo scoppio della guerra in Ucraina ha destato parecchie preoccupazioni a livello mondiale, che in seguito all’occupazione della centrale nucleare di Zaporizhzhia, ad Enerhodar, hanno assunto anche un certo sapore atomico. D’altronde fu sempre in Ucraina, esattamente a Chernobyl, che si registrò il più ampio e grave incidente in una centrale nucleare, costato la vita ad un numero incalcolabile di persone, oltre all’imponente danno ambientale e sociale causato. La centrale nucleare di Zaporizhzhia è stato uno dei tanti siti presi d’assalto dalla Russia dopo l’invasione di febbraio, costringendo di fatto ad interrompere la produzione di energia nucleare per il timore di un incidente simile, ma potenzialmente molto più grave.
La denuncia dei dipendenti della centrale nucleare di Zaporizhzhia
La centrale nucleare di Zaporizhzhia, infatti, rispetto a quella che esplose a Chernobyl, gode di due reattori in più, tutti tenuti sotto controllo grazie al raffreddamento garantito anche dalla corrente elettrica. Questa, però, a causa tanto della guerra, quanto degli ingenti bombardamenti che si sono verificati nell’area, non è stabile e spesso si interrompe anche a lungo. Dopo l’occupazione russa, la centrale che era gestita dall’azienda ucraina Energoatom, è stata statalizzata dai russi e data in gestione a Rosatom.
Durante il periodo di transizione della centrale nucleare di Zaporizhzhia, però, si sono verificati una serie di problemi. I russi, infatti, erano pressoché certi che i dipendenti avrebbero deciso spontaneamente di collaborare con loro, lavorando per Rosatom, ma nella realtà si sono trovati davanti ad una ferma opposizione. Per far collaborare i dipendenti, raccontano oggi al Times garantendosi il completo anonimato, i russi scelsero la strada della tortura. Lo racconta, in particolare, un ex dipendente della centrale nucleare di Zaporizhzhia, che sostiene di essere stato arrestato. “Mi hanno picchiato in testa e sul corpo con un manganello di gomma”, racconta, “hanno tenuto una pistola con proiettili in gomma ad un metro dalla mia gamba e mi hanno sparato“. Sostiene che gli abbiano causato diverse ferite, che venivano sistematicamente riaperte perché si infettassero, e che dopo il manganello hanno usato anche un bastone di legno. È stato tenuto prigioniero e seviziato per diversi mesi, poi liberato, ma ora ha paura ad uscire di casa.