Ha vinto la linea di Giorgia Meloni: nel centrodestra il partito che avrà più voti proporrà il nome per la presidenza del Consiglio. È il principio che vige da sempre nel centrodestra (lo ha ripetuto anche Maurizio Lupi) e che Salvini ripete da anni, e che adesso, a due mesi dal voto, favorisce la Meloni. Dunque niente candidatura automatica a premier per la leader di FdI (era ciò che sperava Enrico Letta).
Già applicato nel 2018, questo accordo non portò grande fortuna al centrodestra: prima coalizione che però al proprio interno non annoverava il primo partito. Sappiamo com’è finita. Ora probabilmente andrà diversamente, visto il tracollo cui il M5s sembra destinato.
Ieri intanto è arrivato il primo segnale forte dal centrodestra, ed è un patto che vuole comunicare concordia e unità d’intenti, suggellato da un comunicato congiunto che parla di “pieno accordo” e di “lavoro avviato con l’obiettivo di vincere le prossime elezioni e costruire un governo stabile e coeso, con un programma condiviso e innovativo”.
La formula concordata ridimensiona molte critiche recenti al centrodestra. L’accordo non prevede che venga indicato per Palazzo Chigi il leader del primo partito della coalizione, ma che il primo partito indichi un nome. Se prevarrà davvero Fratelli d’Italia, la Meloni potrebbe avanzare candidature diverse dalla propria, al punto che già circolano i nomi di Letizia Moratti o Giulio Tremonti. È una mossa prudente che accoglie l’istanza di Silvio Berlusconi, preoccupato che indicare subito il nome di Giorgia Meloni come futuro premier del centrodestra avrebbe fatto perdere voti alla coalizione, scoraggiando i moderati: ed è un segnale a a Enrico Letta, che ha lanciato una campagna elettorale contro i fasciosovranisti per identificare, a proprio vantaggio, tutto il centrodestra con la leader di FdI. Il messaggio di ieri, almeno nelle intenzioni, è il seguente: il centrodestra non è a trazione Meloni. Con buona pace di Repubblica e di Letta.
L’immagine di coesione è poi rafforzata dall’intesa raggiunta anche sui numeri: nei 221 collegi uninominali correranno 98 candidati di FdI (44%), 70 della Lega (32%), 42 di Forza Italia e Udc (19%) e i restanti 11 (5%) dei centristi di Noi con l’Italia e di Coraggio Italia, i cui leader Maurizio Lupi e Luigi Brugnaro erano seduti ieri al vertice del centrodestra svoltosi a Montecitorio con Meloni, Salvini e Berlusconi. I nomi per i collegi verranno scelti successivamente: il “criterio della loro distribuzione si baserà sulla selezione dei candidati più competitivi in base al consenso attribuito ai partiti”.
La nota congiunta del centrodestra precisa infine che “si presenterà una lista unica nelle circoscrizioni estere” mentre a breve sarà istituito il “tavolo del programma”. Con i 5 Stelle attorcigliati nella discussione sul secondo mandato e con il centrosinistra prigioniero dei veti incrociati interni, la mossa del centrodestra è una prima spallata almeno nell’immagine offerta agli elettori.
Va anche notato che non sono previste liste collettive: ogni partito sarà presente con il proprio simbolo. Non ci sarà un simbolo unificante con un nome solo, ma ciascuno correrà con i nomi dei rispettivi leader nel logo.
Intanto la novità di queste trattative è la compattezza dell’intesa tra Lega e Forza Italia, cementata in un anno e mezzo di sostegno al governo Draghi e di lavoro comune al suo interno, sperimentata alle amministrative di giugno e messa alla prova con successo dalla crisi di governo, oltre che dall’emorragia di parlamentari dal partito del Cavaliere: tutti esponenti che flirtavano da tempo con il Pd. Se gli eletti di FI e Lega superassero in numero quelli di FdI, al momento di designare il premier la partita interna alla coalizione non sarebbe scontata.
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