“Un’aggregazione motivata da una necessità elettorale, prima che dalla condivisione di un progetto politico”. È il centrosinistra lettiano visto da Arturo Parisi, fondatore dell’Ulivo con Romano Prodi, deputato per quattro legislature, ex ministro della Difesa. Secondo il professore “a sbagliare è stato soprattutto Calenda”, ritenendo che Letta potesse condividere cn lui una leadership paritaria contro la proporzione delle forze elettorali. Uno strappo, quello di Calenda, che ha rimescolato tutti i giochi nel centrosinistra.
Ieri intanto il leader di Azione ha detto di avere raggiunto un accordo con Renzi. “Se non è difficile immaginare il danno fatto alla sinistra” osserva Parisi “non è altrettanto facile calcolare quelli che potrebbero fare alla destra”. Sarà la campagna elettorale a dirlo.
Ma una cosa l’ex ministro tiene a sottolineare, che spesso si dimentica in questi giorni. Il vero sovrano di questa situazione politica è il Rosatellum, che aggrega forze per convenienza elettorale assoggettando tutto ad una logica spartitoria. E non sarà il voto a risolvere il problema.
Alla luce degli eventi di questi giorni, quale centrosinistra sta prendendo forma in vista del 25 settembre?
Quello immaginato e descritto con chiarezza da Letta nell’ultima direzione. L’esito di una lettura del Rosatellum, la legge elettorale in vigore, come spinta ad aggregare tutte le liste disposte ad apparentarsi elettoralmente con il Pd senza avanzare alcuna preclusione pregiudiziale verso altri quali che siano. Naturalmente: ad esclusione di Renzi e di Conte. Un’aggregazione motivata da una necessità elettorale, prima che dalla condivisione di un progetto politico. E dalla determinazione ad impedire alla destra la conquista del governo, prima che dall’ambizione di governare insieme il Paese.
Ha sbagliato Calenda, abbandonando un accordo che aveva sottoscritto, oppure ha sbagliato Letta, cercando di aggregare troppi soggetti?
Al di là della lettera e del retroscena del testo, guardando al senso del fallito accordo e al contesto, penso che ognuno dei due abbia incoraggiato l’errore dell’altro. Ma a sbagliare è stato soprattutto Calenda nell’illudersi che Letta avesse condiviso con lui l’idea di una Unione tra sinistra e centro, guidata da una leadership qualitativamente bicipite anche se in un rapporto quantitativo di 70 a 30. Come se fosse nella disponibilità di Letta tagliare fuori i rosso-verdi nel momento stesso nel quale veniva chiamato in causa come leader di tutta la sinistra senza esclusione alcuna.
Eppure, apparentemente, non è il numero dei partiti a condizionare il risultato, ma il progetto politico: si veda la stagione dell’Ulivo di Prodi ’96. Che cosa manca o è mancato all’iniziativa di Letta?
Lasciamo stare l’Ulivo, che appartiene ad un’altra stagione e chiama in causa un contesto profondamente diverso. Sul piano analitico ogni confronto è oggettivamente sbagliato e su quello dei meriti e le colpe ingeneroso. Mi chiede che cosa è mancato oggi? L’ha detto lei: un chiaro progetto politico. Nata dentro la crisi del Governo Draghi, che aveva visto i difensori di quell’esperienza nitidamente contrapporsi ai detrattori, un’alleanza degna di essere chiamata politica avrebbe dovuto unire tutti e solo quanti, non dico nell’“agenda” ma negli “acta” di Draghi dicevano di essersi riconosciuti e di riconoscersi ancora. Invece, mentre dall’altra parte stanno tutti e solo quelli che hanno determinato la caduta del Governo, da questa quelli finiti insieme non sono né tutti né solo i suoi difensori. È perciò che onestamente Letta ha escluso di definirla nel suo insieme come alleanza politica. Più che un errore quella di Letta è stata una scelta. Motivata com’è dalla necessità di contrastare i pericoli di una vittoria della destra, della sua oculatezza potremo parlare solo alla fine.
Secondo lei Letta ha rinunciato o no ad un accordo, eventualmente post-voto, con i 5 stelle? Non è proprio questo, inseguire un “campo largo” poi franato, l’errore del segretario Pd?
Se errore, non è il suo. Se suo, non è certo di oggi. Come dimenticare questi tre anni? Prima l’avventura improvvisata, figlia della comune paura delle elezioni di entrambe le parti, e del desiderio degli uni di restare, degli altri di ritornare al governo. Poi l’illusione di trasformare questa avventura occasionale o anche solo di farla passare per un rapporto organico in nome di un comune imprecisato progressismo. Infine la difesa di Conte, come unico premier e allo stesso tempo leader comune del campo progressista fino alla vigilia dell’avvento di Draghi a Palazzo Chigi. Come avrebbe mai potuto Letta, che aveva raccolto l’eredità di Zingaretti senza neppure riservarsi il beneficio d’inventario, in pochi giorni prima dichiarare la rottura, gridare al tradimento, e infine ricucire in nome di un comune progressismo? Questo per i giorni passati. Quanto ai futuri, lasciamoli al futuro. Pensando alle giravolte di questa legislatura, o anche solo a quelle di questa settimana.
Stando così le cose, il patto Renzi-Calenda ha le carte in regola per rappresentare i moderati, dunque fare il vero centro, e togliere voti centristi al centrodestra?
Patto? A poche ore dall’ultima scadenza su questo patto più che fatti sento parole. E senza meraviglia. Spesso i più vicini, come di certo son Renzi e Calenda, sono anche tra loro i più lontani. Quanto all’esito, se non è difficile immaginare il danno fatto alla sinistra, non è altrettanto facile calcolare quelli che potrebbero fare alla destra. Molto dipende, direi a questo punto tutto, dalla campagna elettorale.
Vede possibile una scomposizione post-voto del centrodestra e una ri-aggregazione di un polo centrista con FI, Pd, Renzi e altri, una sorta di “maggioranza Ursula”? Dobbiamo temerlo o auspicarlo?
L’unica cosa sicura è che, passata la spinta ad aggregarsi incentivata per un momento dalla componente maggioritaria del Rosatellum, ritornerà a soffiare sempre più forte la spinta a contendersi pro-porzione tutto quello che è spartibile. Senza un progetto politico che accomuni i gruppi oltre il giorno per giorno, questo è un destino ineluttabile. Aggiungerei solo che l’unità interna e la coerenza del progetto politico di un campo in genere alimenta l’unità e la coerenza dei campi ad esso contrapposti. E, all’opposto, se la divisione interna e l’assenza di qualità politica di uno, di certo, lo indebolisce, esso divide allo stesso tempo anche il campo avversario, e abbassa la sua tensione politica. Ecco perché, se nell’immediato io sono preoccupato per le difficoltà del mio campo, guardo con preoccupazione non minore quello che avviene nel campo di destra al momento annunciato come sicuro vincitore, anche perché, come sempre, allegramente diviso nell’illusione che le divisioni che propizierebbero la sua vittoria cessino la sera delle elezioni.
(Federico Ferraù)
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