Spirava cinquant’anni fa con il film di Ettore Scola C’eravamo tanto amati la tanto amata da noi in patria, e ammirata all’estero, commedia all’italiana. Tale deadline non deve invero considerarsi perentoria, poiché all’epoca coeva al film di Scola altre pellicole possono vedersi attribuire il titolo di ultima del suddetto genere, meglio dire sottogenere, che ha caratterizzato il cinema nostrano per almeno due se non tre generazioni di spettatori, di autori e – elemento cardine di questa triade di stakeholders – di attori. Ci riferiamo a film come In nome del popolo italiano (Risi, 1971), Lo scopone scientifico (Comencini, 1972), Amici miei (Monicelli, 1975), I nuovi mostri (Monicelli, Risi e Scola, 1977), fino ad arrivare a La terrazza (Scola, 1980). Ma senz’altro C’eravamo tanto amati si può considerare l’inizio della fine, per svariate ragioni.



In primis, perché quest’ultimo si avvale ancora della performance di due tra i cosiddetti quattro moschettieri (Gassman e Manfredi, che sono nel film, più Sordi e Tognazzi. Cinque con l’aggiunta di Mastroianni): gli attori/maschera che sono stati per almeno tre lustri il volto di questo cinema. Guasconi, menefreghisti, mammoni e spavaldi, essi hanno dato vita e vitalità a una galleria di caratterizzazioni emblematiche quanto impareggiabili, riprendendo e aggiornando all’epoca del boom economico – e a quella di riflusso appena successiva – le maschere della classica commedia dell’arte.



Poi perché gli autori del soggetto e della sceneggiatura sono i sempiterni Age e Scarpelli, qui con la collaborazione del regista Ettore Scola, anch’egli nato al cinema come sceneggiatore (in coppia con Ruggero Maccari). Cioè i principi tra gli scrittori italiani di cine-commedie, ancora una volta impegnati nel far emergere il paradigmatico straordinario dall’ordinario quotidiano.

Infine, ma dovrebbe essere la prima cosa, perché la materia socio-narrativa di cui si occupa il film può essere ancora validamente trattata con gli stilemi di quel tipo di cinema, cosa che poco dopo non sarà mai più possibile.



C’eravamo tanto amati racconta le alterne fortune dei tre amici Antonio, Gianni e Nicola (rispettivamente Manfredi, Gassman e Satta Flores), e di Luciana (Stefania Sandrelli), la donna da loro tutti – in tempi diversi – amata, durante il trentennio che va dalla resistenza al fascismo fino all’austerity dei primi anni Settanta (il film è del 1974), passando per gli ultimi anni della guerra, l’immediato dopoguerra con la ricostruzione, il boom economico e la fine del medesimo nelle lotte dei secondi anni Sessanta.

Sullo sfondo, le tappe della nostra storia dello spettacolo e del cinema primeggiano rispetto ai principali avvenimenti in campo sociale e politico. Infatti, sono citati, o per meglio dire fanno parte del racconto, incastrati tra vero e romanzato: la trasmissione cult di Mike Bongiorno (che interpreta se stesso) Lascia o Raddoppia?, poiché vi partecipa Nicola, l’intellettuale del gruppo; il film di Vittorio De Sica (cui Scola dedica il suo nell’anno della scomparsa) Ladri di biciclette, che coinvolge lo stesso Nicola in una discussione feroce al cineforum del suo paese di provincia; il making de La dolce vita, con una scena ambientata durante la lavorazione della celeberrima sequenza della fontana di Trevi, quando arriva l’infermiere Antonio in ambulanza per trasportare un moribondo e nella quale compaiono, nella parte di se stessi, un divertito Mastroianni e uno scocciato Fellini.

Come sostenne con sagacia un celebre critico, con C’eravamo tanto amati “è come se la commedia all’italiana, al canto del cigno, si piegasse a riguardare trent’anni di storia attraverso i suoi disillusi rappresentanti”. Infatti, il film si dispiega sul tema del tempo che scorre, giocato sul filo dei ricordi dei protagonisti e con una struttura a flashback, atta a rimarcare soprattutto le speranze disattese e gli ideali traditi, in vero più con pacata e ironica malinconia che con amarezza.

Quest’opera corale di Scola appare allora come la cronistoria di una generazione di onesti perdenti, consapevoli e autoironici, orgogliosamente attaccati, almeno due dei protagonisti su tre, ai propri principi socio-morali di partenza. L’eccezione è rappresentata da Gianni, l’avvocato scaltro, carrierista a scapito degli affetti, che gli ideali di cui sopra li ha traditi consapevolmente in funzione della sua ascesa economico-sociale, perfettamente riuscita ma infine amara. Infatti, egli risulterà l’unico vero perdente di questa storia. Morta la moglie in un incidente stradale – del quale il fantasma di lei gli rinfaccia la colpa – rimane tristemente solo in una villa smisurata, a fianco dell’anziano suocero, ricco e altrettanto solo (un magistrale Aldo Fabrizi), i cui moniti ancor di più gli fanno pesare la sua condizione.

Chi invece trova un equilibrio è l’infermiere comunista Antonio, il più “ingenuo” dei tre, l’unico a essersi in qualche modo realizzato sposando Luciana, l’incontro di tutta una vita. Finale che sembra suggerire – e profeticamente anticipare – gli anni del riflusso, del passaggio dal sociale al personale, come avverrà gradualmente dalla seconda metà degli anni Settanta in poi.

C’eravamo tanto amati rappresenta anche un sentito omaggio, ironico e riconoscente, al neorealismo italiano, e in genere a tutto il cinema della commedia di costume che da esso è disceso. La scena in cui Vittorio De Sica, nella parte di se stesso, in un incontro aperto al pubblico (cui partecipano Nicola e Antonio) racconta i retroscena del suo Ladri di biciclette vale da sola tutto il pathos nostalgico di questo bel film di Ettore Scola, certamente il migliore della sua carriera.

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