Un crescendo di sgomento e di sfiducia sembrava avvolgere il caso di Daniela Molinari che dai primi di febbraio aveva iniziato un’estenuante ricerca della propria madre biologica perché potesse fornirle un prelievo di sangue salvavita.
Malata di cancro con l’urgenza di ricostruire la mappa genetica per iniziare una terapia efficace a combattere un tumore ai linfonodi, la donna, 47 anni, infermiera, due figli, ha dovuto misurarsi con gli inizi della propria esistenza: abbandonata al momento del parto, avvenuto a Como, era stata adottata dopo circa 20 mesi da una famiglia di Milano. E quell’inizio oggi decisivo, quel taglio del cordone ombelicale che nel suo caso aveva rappresentato una rottura definitiva, ha reso particolarmente difficoltosa e incerta l’impresa.
Solo ieri infatti la vicenda si è conclusa con un verdetto favorevole, con la decisione della madre “senza nome”, di farsi prelevare il sangue che consentirà la terapia e scongiurerà – così si auspica – che la malattia prenda il sopravvento. E come sappiamo dalle cronache, mentre l’identificazione della madre biologica era stata resa possibile attingendo l’informazione dagli archivi, insormontabile si era rivelato il rifiuto dell’anonima madre di rispondere all’appello di una figlia probabilmente legata solo a un ricordo da cancellare.
Ora che la vicenda sembra incanalarsi in una prospettiva meno inquietante, affiorano percezioni inevitabili, diverse e distanti da certi giudizi malevoli e sentenziosi, circa la resistenza di una madre a farsi avanti nel rispondere al grido di una figlia. Si può forse immaginare uno sforzo immane di questa madre – senza volto e senza nome – nel disseppellire ricordi angosciosi, mai del tutto annientabili, tenuti con ogni cura distanti da una vita da ricominciare ex novo nel tentativo di dimenticare, dimenticare per sempre. Si cerca spesso di rimuovere le tessere dolorose di un vissuto nella ricerca di un sollievo, di una liberazione.
Dev’essere stato un brutto colpo veder affiorare ricordi insabbiati da mezzo secolo e che proprio un lavoro di rimozione radicale ha fatto sì che insieme alle ombre venissero allontanate anche le zone luminose. Nella vicenda di una maternità, per quanto travagliata, pesante di angustie e contraddizioni, non può sfuggire un dato fondamentale: l’aver dato alla luce un essere umano. E questo resta comunque – anche se nella dinamica emotiva rischia di passare in secondo piano – un aspetto essenziale dell’evento, incommensurabilmente positivo rispetto a qualsiasi speculazione.
Una madre “inesistente”, per quanto solo biologica ed evocata forse solo come un’assenza, compare come una figura attuale anche per la figlia Daniela: un imprevisto inimmaginabile e urgente ha quasi costretto le due donne a risalire all’evento di una nascita avvolta nella dimenticanza, affidata a un destino sconosciuto che oggi trova un punto di contatto, un risveglio su una evidenza essenziale, una dipendenza che continua a mostrare la sua radice.
Questo si coglie anche nelle parole taglienti della figlia che riscopre un nesso, sia pure solo biologico, con la donna che l’ha messa al mondo e che si mostrava insensibile e sorda alla sua richiesta: “Io spero ancora che tu possa ripensare alla tua decisione, ma voglio che tu sappia che non posso cambiare idea – aveva scritto in una lettera aperta diramata dal quotidiano La Provincia di Como – non posso accettare di morire senza combattere, sarebbe come suicidarmi e la vita è un dono troppo prezioso per farlo…utilizzerò tutto ciò che è in mio potere per darmi la possibilità di vivere, ritengo che sia un mio diritto”.
La considerazione della vita che urge, della vita che è un dono, sembra abbia ridato consistenza a un vissuto rimosso, in realtà incancellabile.
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