Modelli semplici per cervelli complessi: è il titolo stimolante dell’intervento che si terrà oggi (giovedì 22 agosto) nello spazio Brain del Meeting di Rimini, con la partecipazione di Sergio Martinoia, ordinario di Bioingegneria dell’Università di Genova, e di Monica Frega, ricercatore al Dipartimento di Neurofisiologia Clinica dell’Università di Twente (Paesi Bassi). Abbiamo incontrato Monica Frega che ci ha parlato delle sue ricerche e ha anticipato al Sussidiario i contenuti principali del suo intervento.
Di che cosa si occupa?
Sono un ingegnere e studio le malattie cerebrali dello sviluppo. Cerco di ridurre la complessità di questo nostro organo, utilizzando le cellule della pelle dei pazienti e convertendole in cellule staminali pluripotenti, ossia cellule all’inizio dello sviluppo e che non sono quindi ancora specializzate. Le forzo a diventare neuroni e, avendo a disposizione neuroni sia sani sia di pazienti, riesco a confrontare i loro modi di “parlare”. Essi parlano infatti attraverso segnali elettrici; è sufficiente disporre di microelettrodi su cui poggiare i neuroni per studiare il loro modo di comunicare.
Quali potrebbero essere le applicazioni, in campo medico e farmaceutico, delle ricerche che sta svolgendo?
Porto un esempio dell’ultimo studio che ho fatto. Ho posto i neuroni di pazienti affetti da una rara sindrome del sviluppo sui dispositivi sopra citati e ho osservato che questi neuroni comunicavano in modo diverso rispetto a quelli sani. È necessario dunque, a questo punto, capire il motivo per il quale questi neuroni comunicano male, solitamente sono motivi molecolari, e tentare di trovare sostanze che agiscano e migliorino l’attività neuronale. Questa può essere anche un’applicazione medica, nel senso che la medicina in questo momento sta chiedendo un approccio più personalizzato al paziente: ogni persona è unica, risponde al trattamento in maniera diversa (basti pensare all’epilessia). Esistono moltissime malattie genetiche per cui il paziente deve esser trattato in maniera unica. Questa metodologia potrebbe quindi essere in futuro, entro dieci anni, utilizzata dai medici per poter diagnosticare la malattia al paziente e definire la cura personalizzata.
In che modo la sua ricerca ha contribuito alla progettazione e realizzazione dello spazio Brain?
Il relatore di questo spazio è Sergio Martinoia, che è stato il mio professore di università. Ho fatto insieme a lui il dottorato e ho sempre mantenuto, nonostante io ora lavori in Olanda, un rapporto speciale. Mi ha invitato appena è stato coinvolto in questo lavoro, anche perché sono argomenti su cui lavoro ormai da dieci anni. L’ho quindi aiutato nella progettazione dei pannelli, nella traduzione dei video presenti nello spazio. Sono stata in realtà invitata in qualità di relatrice, che è un immenso onore per me, dal momento che vengo al Meeting da quando sono piccola, ma nel momento in cui ti trovi qui non puoi non dare una mano e raccontare alla gente la bellezza e il fascino di questo lavoro e del cervello.
L’incontro di oggi, che la vedrà protagonista, porta il titolo “Modelli semplici per cervelli complessi”: può darci un’anteprima rispetto a quello che sarà il contenuto del suo intervento e una spiegazione del titolo dell’incontro stesso?
Oggi parlerò della ricerca che svolgo e spero che durante questo incontro gli ascoltatori capiscano un po’ più chi sono e il motivo per il quale sono affascinata da quello che faccio e dal cervello. Vi racconterò le ultime scoperte che abbiamo fatto. Il titolo dell’incontro si riferisce alla complessità del cervello; è costituito infatti da centinaia di miliardi di cellule che parlano continuamente tra di loro attraverso centinaia di miliardi di connessioni. È di una complessità folle e per capire il suo funzionamento è necessario utilizzare dei modelli per quei sistemi che intendiamo studiare, e non necessariamente capire, modelli semplici per cervelli complessi, che mantengano però quei processi biologici che esistono nel nostro cervello e che i neuroni comunichino esattamente come farebbero nel cervello umano.
Si è parlato, da un lato, dello studio che parte dall’unicità della persona e, dall’altro, della necessità di giungere a dei modelli. Come sono conciliabili le due cose?
I modelli che utilizzo vanno esattamente in questa direzione. Nel momento in cui penso all’unicità della persona ho bisogno di modelli che prendano in considerazione anche questo fatto. L’impiego di cellule staminali pluripotenti va proprio in questa direzione. In primis abbiamo un modello umano, e non più animale, che rispecchia maggiormente ciò che siamo. Inoltre, i neuroni che derivo da queste cellule hanno il corredo genetico del mio paziente: non sto più quindi osservando e studiando una malattia generale, ma come i neuroni con lo stesso corredo genetico del paziente si comportano. Ciò che facciamo è molto piccolo rispetto all’enormità e complessità del cervello; non abbiamo la pretesa di capire né l’unicità della persona né tutto ciò che succede nel cervello. I nostri sono tentativi di conoscere come funzioniamo: dal mio punto di vista infatti è bellissimo che l’uomo sia fatto in modo da riuscire a capire come egli stesso sia fatto. Inoltre, è un tentativo di aiutare i pazienti: ciò che mi spinge a fare bene il mio lavoro è pensare, quando incontro i genitori dei pazienti e i pazienti stessi, che sto lavorando per loro.
Ha riscontrato aspetti innovativi e utili per la sua ricerca sia partecipando alla realizzazione dell’area Brain sia ascoltando gli incontri che si sono tenuti in quest’area?
Nelle mie ricerche e nei miei studi non affronto i temi della percezione e delle illusioni ottiche, e sia questi argomenti sia la prima parte della mostra che li riguarda sono affascinanti e portano a porsi moltissime domande su come siamo fatti e come il cervello cambi a seconda della relazione con il mondo esterno. Un altro momento che mi ha colpito è stato l’incontro a cui hanno preso parte i relatori Egidio d’Angelo e Vittorio Gallese, grandi personalità del nostro campo: il primo intende cercare di capire la morfologia del nostro cervello e il secondo sostiene che quest’ultimo sia invece irriducibile. Mi ha colpito l’accento che Gallese ha posto sui neuroni specchio e sul fatto che l’uomo non possa prescindere dalle relazioni. Tutti questi aspetti sono interessanti perché ti arricchiscono non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano.
Qual è l’aspetto che più la affascina del Meeting?
Io vengo al Meeting da quando sono piccola. Ho la fortuna che i miei genitori mi abbiano sempre portato. Mi accorgevo che venire al Meeting è sì motivo di stanchezza, ma ti rigenera, anche grazie all’immensa offerta culturale; è fonte di un’educazione alla bellezza che durante l’anno un po’ si perde. Ho quindi deciso di parteciparvi come volontaria e ho lavorato agli stand, come lavapiatti e come hostess. Essere invitata e trovarmi nel programma del Meeting è per me un onore enorme. Meeting è un incontro tra persone totalmente diverse e ti consente di tornare a casa arricchita umanamente.
Ritiene che il Meeting possa favorire, in merito anche al tema di quest’anno “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”, la relazione con l’altro, uno sguardo più attento verso i bisogni dell’altro e la capacità di empatizzare?
Sicuramente. Vivo in Olanda e, che io sappia, non esistono meeting come questo, dove si possa parlare di qualsiasi cosa con chiunque, confrontarsi e comunicare tra fedi totalmente diverse. Anche la nostra mostra non intende dare risposte: nel video introduttivo sono presenti domande rispetto alla coscienza e alla felicità. L’idea, e lo spirito stesso del Meeting, è camminare insieme, cercando di scorgere e scoprire la bellezza in compagnia. Ognuno trova le proprie risposte rispetto alla propria esperienza e il Meeting fornisce gli strumenti per poterlo fare, ti mostra il bello. Sta a te coglierlo.
(Elisabetta Bulla, Camplus College Bononia)