Se non fosse storia vera sembrerebbe una favola di Fedro o Esopo, che potrebbe iniziare così: “In un tempo lontano lontano, un cervo orgoglioso correva per la foresta; era giovane, ma sapeva che avrebbe avuto in regalo dalla dea Diana due lunghe corna che lo avrebbero reso il più bello di tutti gli animali. Così giocando tra un cespuglio e un cespo di ginepro, andò a infilarsi nel suo lungo nobile collo una ruota di un carro che alcuni viandanti avevano lasciato lungo il sentiero, perché si erano spaccati i suoi raggi. Il giovane cervo incurante degli avvisi degli amici si tenne la ruota al collo come una strana ma unica collana. Ma le grandi corna un po’ alla volta crebbero, e quando fu il momento di sbarazzarsi della ruota, questa non poté più uscire” . Ma torniamo ai giorni d’oggi: questa favola si è avverata nei lontani Stati Uniti, nei pressi di Denver, dove un cervo si è ritrovato con un copertone intorno al collo e per anni non è riuscito a sbarazzarsene per via delle sue lunghe corna. E questo potrebbe sembrare un apologo sulla superbia del cervo o sui danni dell’inquinamento e dei rifiuti sparsi nella natura dagli uomini.



Ma c’è un ma: i guardaboschi hanno avvistato il cervo, lo hanno avvicinato, si sono commossi e, voi penserete, hanno sfilato il copertone dal collo, semplicemente tagliandolo per farlo passare meglio. No! Hanno tagliato le corna del cervo per sfilare il copertone integro!

Come non vedere in questo fatto l’emblema della società occidentale: la gomma nuoce al cervo dunque si distrugge la gomma per salvarlo? No, si distruggono le corna del cervo per salvare la gomma. Pensateci e vedete quanti esempi in politica, vita sociale ecc troverete su questa falsariga: conta più il prodotto di una fabbrica che il parallelo prodotto della natura, conta più l’idea che abbiamo che la realtà, contano più i protocolli e i contratti astratti o teorici che i reali bisogni di malati, studenti o clienti. C’è scritto di farlo e noi lo facciamo.



Come diceva inorridita Hannah Arendt, parlando della banalità del male. Il marito della Arendt, Gunther Anders, aveva approfondito questo argomento, spiegando che ormai gli esseri umani venerano i loro manufatti perché sono così perfetti, lisci, senza pensieri. La chiamava “invidia prometeica”, questo desiderio autodistruttivo dell’uomo di voler perdere la propria libertà per obbedire a protocolli e schemi per evitare di pensare, per essere dispensato dal prendere decisioni. Anders intervistò il pilota che aveva sganciato la bomba su Hiroshima, chiedendogli cosa aveva provato nel compiere quell’operazione distruttiva e questi gli rispose che non aveva provato niente di speciale: “It’s my job!”. Simili risposte ottenne dai carcerieri dei lager tedeschi. Amiamo così tanto quello che possiamo controllare che non sappiamo fare altro di quello che ci viene richiesto; e ne siamo contenti, sia che finiamo a lavorare in una fabbrica che produce mine anti-uomo che pesticidi dannosi: basta che facciamo “my job!”.



Epoca è questa, in cui invece di slanciarci in imprese grandi, lasciamo che il mercato e la routine ci riducano alla nostra funzione; ma noi siamo molto più della funzione che facciamo, del contratto di lavoro che abbiamo firmato. Ma spesso l’infermiere, il medico, l’insegnante, l’impiegato allo sportello hanno un mantra: “Non spetta a me”, che continua con “si rivolga al collega” oppure, “non so cosa farci”, mentre sarebbe umano che vedendo un paziente, uno studente, un cliente in difficoltà uno almeno facesse il piccolo passo di tentare un abbozzo di aiuto anche se non è nel suo mansionario, nel suo orario, nel suo protocollo.

L’apologo di Fedro allora potrebbe concludersi con la punizione del cervo che per la sua superbia si ritrova senza le alte corna. Ma penso che potrebbe finire anche così: “Gli dei sdegnati, al vedere il povero cervo triste, privato per la stupidità dell’uomo dell’onore dei suoi simboli regali, colpirono l’uomo con una maledizione: aveva scelto di agire da stolto, venerando un cerchio di gomma più dell’onore dell’animale, e per questo condannarono l’uomo a venerare per sempre i miseri prodotti delle sue mani invece che i misteriosi e fantasiosi sfarzi della natura. Lo condannarono alla miopia del cuore, che ancora oggi rende triste la sua vita”.