“Sto pensando agli angeli […] in me aumenta la curiosità su cosa sarà dopo. Questo è bello”. Nell’ultima intervista, rilasciata in occasione del Natale ad Avvenire, Cesare Cavalleri non ha timore di confrontarsi con la morte e su cosa ci attende nell’Aldilà. “Non ho nessuna idea precisa, posso solo considerare la gloria di Dio e la sua misericordia. Siamo nelle sue mani, perché il Signore ci vuole bene, da sempre. E quindi non c’è da temere nulla, perché ha in serbo per noi le cose più belle che si possano desiderare. Sono tranquillo”.
Un pensiero alto che conforta, un compendio di quello che dovrebbe essere l’atteggiamento giusto di fronte al passaggio nella vita eterna, espresso da chi è stato forse l’intellettuale cattolico più completo che ha avuto l’Italia nel dopoguerra. Difficilmente inquadrabile in una definizione, Cavalleri – nato a Treviglio (Bergamo) il 13 novembre 1936, numerario dell’Opus Dei – è stato giornalista, editore, scrittore, critico letterario e televisivo, poeta, di rara sensibilità e vasta cultura, ma soprattutto uomo autentico. Per lui compito del cristiano è “amare il prossimo portandolo con la propria testimonianza verso l’incontro con Dio”.
In modo sorprendente e inusuale, aveva annunciato la propria dipartita in una lettera pubblicata il 23 novembre scorso dallo stesso Avvenire, il quotidiano a cui collaborava con continuità sin dal suo primo numero, il 4 dicembre 1968. “I medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita”, scriveva. Di settimane ne sono passate solo 5, prima del “grande salto”, come chiamava la morte, che l’ha raggiunto a Milano dopo una lunga malattia. Laureato in economia alla Cattolica, in prima linea nel campo dell’informazione e dell’editoria per oltre mezzo secolo, storico direttore del mensile Studi Cattolici (tra i collaboratori Ratzinger e Messori) e delle Edizioni Ares, ha scoperto e lanciato Eugenio Corti pubblicando il long seller Il cavallo rosso. Aveva molteplici interessi, che comprendevano anche la moda e la musica in ogni sua espressione (“adoro Maria Callas”), ma soprattutto amava la letteratura, con una particolare predilezione per Buzzati, Eliot, Quasimodo (di questi tre autori aveva gli autografi in ufficio, incorniciati), ma anche Rimbaud, Ungaretti, che frequentò, Montale ed Ezra Pound, cui dedicò una collana.
Ho avuto i primi contatti saltuari con Cavalleri negli anni del liceo, il rapporto è poi cresciuto e si è consolidato finita l’università, dalla metà degli anni Settanta in poi, con alcune tappe importanti: una breve ma significativa collaborazione con Studi Cattolici, la partecipazione al Meeting di Rimini, che seguivamo entrambi, occasione di confronto su tante tematiche legate all’attualità e alla vita della Chiesa, la pubblicazione da Ares del primo libro organico dedicato alle apparizioni di Medjugorje, scritto da me e da Riccardo Caniato, che ebbe numerose edizioni e un notevole successo. Il ricordo più bello è la poesia che scrisse apposta e dedicò a Sara, la mia primogenita. Cesare era un “signore” – così l’ha sempre definito mia moglie Chiara – un gentiluomo d’altri tempi, ma solo nei modi. In realtà era profondamente moderno, immerso com’era nei problemi e nelle sofferenze del nostro tempo, con una visione lucida, esigente ma sempre rispettosa. Mi riceveva nel suo studio sobrio, che corrispondeva al suo carattere discreto. Ma sapeva essere imprevedibile: mi ha sempre colpito il fatto che gli piacessero le canzoni di Ornella Vanoni.
Chi lo ha conosciuto da vicino e ha lavorato con lui l’ha definito un maestro di rigore, di stile, di pensiero, un cattolico fieramente ortodosso, non privo tuttavia di ironia e di un fine umorismo. Sottoscrivo in pieno. Aggiungo che mi hanno edificato e accompagnato negli anni le sue battaglie educate ma decise per la difesa della vita, dal concepimento fino alla sua naturale conclusione, e per la promozione di una incisiva cultura cattolica. Nell’ultima intervista già citata ad Avvenire ammetteva di vedere la Chiesa di oggi “un po’ sbandata perché circola poco amore, ci si preoccupa di grandi questioni sociali necessarie e sacrosante ma ricordiamo che Gesù ci ha detto di andare in tutto il mondo, parlando di Lui sino ai confini della terra”. Che cosa ha ostacolato e spesso impedito l’attesa fioritura postconciliare? Cavalleri lo illustra molto bene, con chiarezza, nella prefazione alla nuova edizione del saggio Il fumo nel tempio di Eugenio Corti, che raccoglie una serie di interventi dello scrittore brianzolo su episodi emblematici accaduti nella Chiesa nei trent’anni tra il 1970 e il 2000.
Riprendendo e sottoscrivendo le riflessioni dell’autore de Il cavallo rosso, Cavalleri spiega che la causa dell’insignificanza nella nostra società dei cattolici sta “da una parte nella prescrizione gramsciana, ben premeditata e ancor meglio eseguita dagli intellettuali del Partito comunista italiano, d’impossessarsi di tutti i centri della creazione e della trasmissione culturale (scuola, magistratura…), per egemonizzarli. Dall’altra c’è il contributo, involontario forse ma di certo influente, di un nugolo di intellettuali cattolici che, credendo di andare incontro al mondo da ‘illuminati’, se ne sono fatti catturare e hanno svuotato di senso il pensiero cristiano”. Che fare di fronte a questa deriva apparentemente senza via d’uscita? Cavalleri fa sua la posizione di Eugenio Corti: non si deve mai cessare di aggrapparsi alla Provvidenza. Perché, “per quanto disordine regni nel mondo, il credente sa che Dio è amorosamente in azione”.
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