“Sapevo che saresti tornata per Cesare Cremonini. Sapevo che saresti tornata per la musica”. Così qualche sera fa mi ha detto un’amica che non vedevo da tanto tempo. Secondo lei il Ministero dell’Istruzione dovrebbe rendere obbligatorie le ore di musica in tutte le scuole: “Perché la musica salva”. Lei lo sa bene. Da quando insegna storia e filosofia anche in un liceo musicale, è più leggera. La musica, quella ribelle, quella ricercata, quella non soggetta a poteri e conformismi, veramente “ti entra nella ossa e ti vibra nella pelle”, canterebbe l’immenso Finardi. Lo so bene anch’io. Lo sapevo bene tre domeniche fa quando sono salita sul traghetto Porto Torres-Genova, preso neanche ventiquattro ore prima per poter neanche ventiquattro ore dopo assistere, anzi vivere, uno dei concerti più grandiosi che abbia mai vissuto.
Dalla Sardegna a Milano per poter sentire Sardegna di Cesare Cremonini. La mia canzone del cuore. Fatta di immagini e amicizia. Carne e anima. Stupore contro potere. Dolore e amore. Dal mare alla metropoli per sentire Il Colibrì e Stella di Mare. Quella straordinaria e geniale rivisitazione, che più volte mi è stata inviata come video quest’estate dagli stadi da chi sa che in pochi mi leggono il cuore come Lucio Dalla. La sera prima un tramonto incredibile alla “Va beh so che eri tu”. Come a dirmi: “Glo, tornare è la strada giusta”. Anche se in quel momento piangevo come una dannata perché fondamentalmente sono un coniglio con gli occhi rossi. La sera dopo eccomi in una cabina con vista mare che mi avventuravo in un mix di lacrime – strano – e maschere di bellezza per sembrare un po’ meno pagliaccia. Accovacciata sul davanzale della finestra oblò guardavo fuori la luna che illuminava le onde. Ondeggiando sul quel mare un po’ matto, capii che in realtà stavo tornando soprattutto per quella misteriosa e benedetta domanda: “Che fine farà tutta questa tenerezza?”.
LA DOMANDA UNIVERSALE DI CESARE CREMONINI
Solo un genio, un uomo vivo e vero come Cesare Cremonini, può scrivere una canzone come Moonwalk. Solo degli artisti possono rendere così reale, in musica e parole, una domanda universale. Perché coscientemente o meno è una domanda che ci facciamo tutti, ogni santo giorno, quando mettiamo i piedi giù dal letto. “OK”. Penso di aver fatto per una buona volta dopo tanto tempo, una scelta bella, una scelta vera, una scelta giusta. – Non c’è divisione tra bellezza, verità e giustizia, vero? – “Così stanca da non dormire”, mi leggo una rivista. Un po’ leggéra come non sono io. Strappo qualche pagina interessante da tenere. Qualche look, “la casa rifiorita. L’arte di abitare”, “Sostituire lo zucchero può fare male al cuore”. Sorrido quando mi ritrovo tra le mani un campioncino di Elève: ETERNITY sculpting youth. Sull’OGGI. Ma non è straordinario che un fluido levigante effetto lifting istantaneo mi ricordi che OGGI desidero l’ETERNITÀ? Forse mi ricorda anche che devo idratare la pelle più spesso. Ma chiaramente penso prima all’eternità che alle cose basiche. Quanto mi piace però questo Mondo. Quanto mi piace ricordarmi che anch’io, bislacca e sbrindellata, in fondo ci credo nell’eternità. E quanto adoro i segni.
Che ci piaccia o no, siamo dentro un destino. Io me ne accorgo, quando mi muovo. Era ora, mi addormento. La mattina una retro miracolosamente fatta bene e l’uscita dal traghetto grazie a un dipendente che mi ricorda che se tutti avessero la sua stessa passione nel proprio lavoro, compresa quella di faticare – vero Gloria? – e quella dolce tenerezza che mi aiuta a sfiorare la parete della nave e una macchina di uno che poverino evidentemente non trovava la macchina, sarebbe più semplice per tutti stare al mondo. Che bella la gentilezza.
È il suo sorriso, il suo “fidati”, il farmi abbassare il finestrino e dirmi “hai visto che ce l’hai fatta?” con aria tenera, a non farmi infastidire dal tipico milanese imbruttito con la mini dietro di me che mi suona solo perché un uomo è stato gentile e perché sto andando lenta per capire dove devo andare. Ed è sempre quel sorriso che mi addolcisce il viaggio davanti alla nebbia continentale. Soprattutto quella di Milano. “Mi prendi allo stomaco, mi fai morire”. Non ce n’è. La sera eccomi davanti alle mie amiche e compagne di concerto di Cesare Cremonini che non vedevo anche loro da una vita. Che strana cosa, la carne. Sempre sull’OGGI ho letto che tre abbracci al giorno alzano il livello della serotonina. Ricordatelo Glo. Così anche i concerti.
CESARE CREMONINI, NON UN SEMPLICE CONCERTO: UNA CATTEDRALE
Con un salto eccoci finalmente sotto quel palco. È stato uno dei concerti più grandiosi che abbia mai vissuto. L’ho già scritto, lo so. Perché? Perché quei geni di Cesare Cremonini, Nicola Balestri, Davide Rossi, Alessandro De Crescenzo, Gary Novak, Roberta Granà, Nicola Peruch, Andrea Morelli, tutte le 125 persone dietro quel palco, l’Airstage che ha costruito quei delfini e lune straordinari, non hanno messo in piedi solo un concerto. Hanno messo in piedi una cattedrale. Una cattedrale fatta dell’intera gamma delle emozioni umane. Dalle più sacre alle più profane. Penso a Logico, Mondo e GreyGoose messe insieme. Tutto dentro un lavoro accurato. Una rappresentazione viva in forme geniali. Un gioco di luce e ombra – senza l’una non ci sarebbe l’altra e viceversa – un’intensa cromaticità, mi verrebbe da dire chagalliana, dove il rosso, il blu e il giallo dominano il palco -. Una visione reale dell’anima. Un lavoro incredibile come per acciuffare l’anima di tutto quel pubblico e renderla visibile su quel palco. Come a ricordare che bisogna guardare fuori da sé per accorgersi di cosa si ha dentro. Quando va in scena “Ciao” con getti di fuoco sul palco e sul pianoforte mi sembra chiarissima questa visione.
Una scommessa d’amore e colpi di scena fin da subito. Una colata d’argento iniziale per farci sentire all’istante stelle di Broadway. Una colata di oro e filamenti dorati finali per ricordarci che non siamo fatti per meno di questo: l’oro. Cesare Cremonini sale sulla pedana mobile forse per le parole più importanti. Quelle di cui abbiamo più bisogno ora. Che ci sia qualcuno o qualcosa che ci indichi la strada. Una ragazza del futuro. Come a ricordare una Beatrice o un Virgilio danzanti. Si muove nell’aria per quel potentissimo “Ma”. È pazzesco come una congiunzione avversativa possa valere più di tante parole che ci diciamo. Ieri sera un bambino di tre anni, Matti, continuava a dirmelo. “Ma, dai!”. Ma. Dai. “Raccontami di te”. Quella canzone, “Chiamala felicità”, che ai primi ascolti dà un fastidio matto, perché fastidioso è il male di vivere, quel “A un passo dalla fine, ma raccontami di te” è una “preghiera” per Cremonini. È una preghiera anche per me. Forse non sono ancora morta, penso, mentre canta questa canzone. Non solo perché sento un friccico mentre ci passa con la pedana davanti – anche i pantaloni di pelle e i lustrini ricordano che siamo fatti di carne e anima -, ma anche perché mi sono mossa. Per quel “Ma” ho preso una nave. Mi sono mossa perché ho ancora desiderio di ascoltare altro da me che mi faccia intuire qualcosa di me. Un’eco del Meraviglioso, di un Ideale, una Perfezione in cui credo anche se totalmente ammaccata.
CESARE CREMONINI HA SALVATO UN PEZZO DI ME
A “Sardegna” muoio. E anche un po’ mi incazzo in realtà. Di fianco a me c’è un gruppo di ragazzi che continua a parlare ad alta voce e andare avanti indietro ogni venti minuti per uno spritz. Viva la diversità sia bene e anche un buono spritz. Ma senza moralismi e scandali, bevi prima o dopo no? So che però non è solo colpa loro. Ci abituiamo e abituiamo i ragazzi ad un’immediatezza bastina che ci distrae dalle cose belle e vere che invece hanno bisogno di tempo e attenzione – so bene cosa vuol dire -. E Sardegna non è una canzone immediata. C’è solo Cesare Cremonini, una chitarra e queste fasce di linee di luce che arrivano dall’alto e dal basso. E si incrociano come a ricordarci che è tutto un intreccio tra cielo e terra. Mai avrei pensato che un concerto indoor mi potesse colpire maggiormente di uno allo stadio. Senza cielo faccio un po’ fatica. Ma questo concerto mi ha ricordato che senza terra e mare, il cielo e la luna varrebbero poco. Lo svolazzamento di delfini e lune insieme, è la conferma. C’è poi il momento al pianoforte. Un momento che non riesco a raccontare. Però a Moonwalk, Vorrei e alla domanda di suo papà “Hai con te l’orchestra?” sarei salita sul palco per abbracciarlo e dirgli che era da tanto che non sentivo così amico qualcuno. E poi mi sarei prostrata davanti a Davide Rossi e il suo violino. A Un giorno migliore torno un’adolescente bambina, che un po’ sono, e va bene così. Suvvia.
Da questo concerto esco felice, libera e commossa. Ha ragione Cesare Cremonini quando, in un’intervista a Rockol, disse che il live non è solo un modo per dimenticare i problemi, ma anche per capire meglio cosa si sta vivendo. Tanti di questi singoli hanno raccontato le mie ultime 48 ore. Esco dal Forum anche risvegliata nel capire ciò che voglio e meno. Prima di tutto ho bisogno di Bellezza per vivere. Ho bisogno di una bellezza reale, carnale che sia eco di qualcos’altro. Una bellezza per cui il cuore non si spegne affatto, ma arde. Nel vialetto tra il parcheggio e casa, ondeggio e continuo a cantare “Dove finirà tutta questa tenerezza?”. Sorrido. Io non lo so. E devo dire che mi viene un po’ l’ansia quando ci penso in generale. Sono sempre un coniglio con gli occhi rossi. Eppure quella bellezza reale che ho visto su quel palco e che mi arde ancora nel cuore ora mentre scrivo, mi fa intuire che quella tenerezza non può essere finita nel nulla. È come se intuissi che seguendo quel filo giallo, quell’oro e quell’orchestra, “questa tenerezza” continuerà a danzare con me, con noi in questa vita stramba e bella. Grazie ragazzi. Avete salvato un pezzo di me. Avete salvato quel mio misterioso e sacro fuoco. Quel misterioso e sacro fuoco che abbiamo tutti dentro di noi.