70 anni fa moriva Cesare Pavese, uno dei più grandi poeti e intellettuali del Novecento, consumato da un’inquietudine esistenziale e affettiva che lo portò al drammatico suicidio in quel di Torino il 27 agosto 1950. Scrittore, traduttore, critico, poeta, perseguitato dal fascismo ma anche controverso nelle proprie convinzioni politiche e sociali: tutto vero, ma prima di tutto era un uomo affascinato dal bello, colpito dalle meraviglie della vita e sofferente per una distanza tra il mondo intellettuale (che ad un certo punto rifiuta) e il “concreto”, la “carne” della realtà. Aveva soltanto 42 anni quando si tolse la vita ingerendo troppe dosi di sonnifero: famosissimo il suo biglietto d’addio al mondo e a quella donna che lo aveva “rifiutato” tornandosene negli Stati Uniti, la bella attrice americana Constance Dowling «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Un messaggio con cui Pavese confermò da un lato la grande ironia troppo spesso dimenticata nelle celebrazioni postume della sua figura letteraria, dall’altra quell’impareggiabile senso di irrequietezza che lo ha portato fino al Cielo forse troppo presto. Un anno prima del gesto estremo, Cesare Pavese sul suo diario riportava già la sensazione di aver terminato il proprio ciclo artistico (anche se solo un anno dopo, poche settimane prima del suicidio, avrebbe vinto il Premio Strega con “La bella estate”): «nel mio mestiere sono re […] resta che ora so quale è il mio più alto trionfo e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita».



LA LOTTA AL LAICISMO

Nella lotta intestina alla ricerca di un’esistenza compiuta, Cesare Pavese ha saputo leggere più di altri pensatori nelle “pieghe” dei rischi che poi si sarebbero scatenati negli anni a venire per la società italiana: Franco Ferrarotti nel suo “Al santuario con Pavese. Storia di un’amicizia”, pubblicato da Edizioni Dehoniane Bologna, ha saputo raccontare la persona del grande genio italiano nel segno della continua insofferenza verso l’ambiente in cui è cresciuto: «una cricca ossessionata dalle proprie convinzioni culturali e politiche, anticlericale fino all’insopportabile», la definiva Valerio Capasa in un articolo di presentazione in esclusiva per il Sussidiario.net. Ciò che forse non è stato capito dai contemporanei è che in Pavese — scriveva Ferrarotti — «era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti». Il laicismo che iniziava a sviscerarsi nei vari ambienti della cultura italiana era quanto di più insopportabile per il cuore inquieto e dubbioso di Pavese: «un laico che non cancella la religione come fatto sociale irrilevante né si crede un privilegiato particolarmente “illuminato” di fronte alla questione non tanto dell’esistenza o dell’inesistenza di Dio quanto del mistero di Dio, di questo rospo in gola che non va né su né giù». Dio non è un tema filosofico o culturale, è un «problema che brucia»: era uno scrittore che aveva tutto e sapeva fare tutto, eppure in lui ardeva dell’altro, cercava chi dava meraviglia e dolore, «Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?» (Cesare Pavese, 20 novembre 1949).



CESARE PAVESE: IL SUICIDIO E LA MATURITÀ

Come del resto viene riportato da diversi studi (anche se non vanno per la maggiore nella critica letteraria, ndr), dietro a quel gesto apparentemente “impossibile” come il suicidio di una delle menti più fulgide del Novecento, Cesare Pavese non si tolse la vita “solo” per l’abbandono della sua donna, bensì per una più totale “insoddisfazione” che abbracciava ogni aspetto della sua complessa esistenza. «Non ci si uccide per amore di una donna», scrive ancora Pavese, «ci si uccide perché un’amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Una sconfitta, certo, su tutti i campi, ma questo forse non basta a “spiegare” il perché di un addio così doloroso dalle inquietudini del mondo: un compimento di destino, seppur tragico, che per Pavese era divenuto di colpo così chiaro e netto come forse non mai. Come commentava Mario Untersteiner (filologo, accademico e traduttore) dopo il suicido di Pavese: «Sento un grandioso mistero che si è compiuto. Così egli volle e così deve essere. […] Credo che molto raramente si troverà si scarna schiettezza davanti al mistero. Di fronte a chi va incontro a questo mistero, bisogna tacere».