Alcuni commentatori, nel giorno della sua scomparsa, hanno definito Cesare Romiti come il “Grande Vecchio” del capitalismo italiano. La definizione era già stata utilizzata nell’anno 2000 per commentare la morte di Enrico Cuccia, direttore generale e poi amministratore e presidente di Mediobanca, vero snodo delle vicende del capitalismo italiano post-bellico sino agli anni ’90, e principale patrocinatore della carriera manageriale dell’ex amministratore delegato e Presidente della Fiat. Cesare Romiti infatti incarna la vera filosofia del capitalismo italiano che ha guidato la rinascita del Paese nel secondo dopoguerra. Dell’intreccio degli interessi tra banche, industria di Stato e grande imprenditoria privata che ha consentito l’approvvigionamento di capitali per lo sviluppo delle grandi imprese, delle più importanti infrastrutture del Paese, la gestione delle crisi aziendali e i passaggi di proprietà sino alla privatizzazione delle aziende pubbliche nell’ultimo decennio dello scorso secolo. Un modello che si è affermato anche grazie al contributo di grandi manager nella veste di fiduciari e attuatori dei patti di gestione, alcuni ben noti all’opinione pubblica dell’epoca come Mario Schimberni, Enrico Bondi, Franco Tatò.



Tra questi Cesare Romiti, con i suoi 25 anni trascorsi nella Fiat, rappresenta il personaggio più emblematico, capace di imporre ai vari esponenti della famiglia Agnelli dei passaggi dolorosi nella gestione della più grande azienda nazionale. Di generare da una crisi drammatica le condizioni per la creazione di un polo finanziario e industriale diversificato con un fatturato complessivo di 40 mila miliardi di lire, secondo solo a quello dell’insieme delle aziende di proprietà dello Stato. Con esiti che hanno trasceso i confini della economia aziendale, a partire dalla scelta controversa di favorire l’ingresso di 360 miliardi di capitali della Libia di Gheddafi nell’azionariato della Fiat, messa in atto nella seconda parte degli anni ’70.

La vicenda emblematica che lo fa diventare un personaggio centrale della storia del Paese è indubbiamente quella della rottura con le organizzazioni sindacali del 1980 sancita dall’avvio di una procedura di licenziamento per 14 mila dipendenti della Fiat auto. Una scelta motivata dalle conseguenze delle due crisi petrolifere sulle vendite di automobili, ma coincidente con una fase drammatica della Repubblica italiana: con l’infiltrazione di fiancheggiatori del terrorismo nelle aziende, con uno sciopero a oltranza proclamato dalle organizzazioni sindacali per contrastare la ristrutturazione dell’impresa, e di un contesto politico, un Governo di unità nazionale sostenuto dal Partito comunista italiano, palesemente ostile all’azienda. Tutti ricorderanno il famoso comizio di Enrico Berlinguer presso i cancelli della Fiat a sostegno degli operai in sciopero.

Fu il management della Fiat, non gli esponenti della famiglia Agnelli, a imporre la rottura. La storia attribuisce a una famosa marcia di protesta contro lo sciopero ad oltranza, i 40 mila quadri e tecnici della Fiat, il merito di aver imposto una svolta filo aziendalista nella vicenda sindacale, e sugli equilibri sociali nel Paese. Con tutta probabilità i numeri dei manifestanti erano inferiori e il successo mediatico, come risulta dai racconti postumi dei protagonisti, fu una sorpresa per gli stessi vertici dell’azienda. La vicenda contribuirà in modo significativo alla fine della fase politica del compromesso storico e a mutare il segno delle relazioni sindacali in un percorso che porterà al superamento dell’intesa sul punto unico di scala mobile firmata nel 1975, emblematicamente sottoscritta da Gianni Agnelli come Presidente della Confindustria, alla spaccatura tra le organizzazioni sindacali e alla sconfitta nel referendum promosso sulla riforma delle indicizzazioni salariali da parte del Partito comunista italiano.

Gli anni ’80 rappresenteranno per la Fiat, e per Romiti, un periodo aureo, con una forte crescita degli utili favorita dalla scelta azzeccata di alcuni nuovi modelli auto e da una progressiva diversificazione delle partecipazioni della holding verso le attività editoriali, le assicurazioni, con l’acquisizione dell’Alfa Romeo, della Snia e di Gemina-Montedison. Un’evoluzione che provocherà la fuoriuscita dalla Fiat dell’Ing. Vittorio Ghidella, amministratore delegato del settore auto, nonché ideatore e progettista dei modelli automobilistici di successo della casa. L’oggetto del contenzioso: le diverse opinioni strategiche riguardo l’opportunità di concentrare le risorse disponibili sullo sviluppo delle innovazioni e sulle alleanze strategiche nel settore automobilistico.

Ho richiamato queste divergenze perché è opinione di molti, compresa quella del defunto Ing. Sergio Marchionne, Amministratore delegato della Fiat dal 2004, che il declino dell’azienda debba essere attribuito alle scelte operate a quel tempo da Cesare Romiti. In effetti negli anni ’90, con le privatizzazioni delle banche e delle aziende pubbliche, si chiude un ciclo del capitalismo italiano. E con esso inizia anche il fisiologico declino dei personaggi che l’anno interpretato. Molti dei quali, Cesare Romiti compreso, sono stati coinvolti nelle vicende giudiziarie di Tangentopoli.

Con la franchezza di sempre Cesare Romiti non ha mancato di polemizzare con le successive scelte strategiche della Famiglia Agnelli. Confortato da una super liquidazione record nell’occasione dello scioglimento del suo rapporto con la Fiat ha dedicato le sue attenzioni al panorama geopolitico internazionale. Come Presidente della Fondazione Italia Cina dal 2004 ha saputo raccogliere energie imprenditoriali e fornire letture lungimiranti per le prospettive di crescita delle relazioni con la più importante economia emergente.

Romiti fa parte della storia delle classi dirigenti orgogliosamente avvezze alla gestione del potere e consapevoli di poter influenzare con i propri comportamenti quelli più generali della comunità di appartenenza. Un passato non privo di limiti ed errori, ma che ricordo con un po’ di nostalgia.