Il piglio decisionista di Giorgia Meloni sta rivelando il taumaturgico potere di ridare qualche scintilla di vita alla sinistra italiana. A partire dall’unica sua parte non ancora in decomposizione, la Cgil. Alla quale – non a caso – cerca di aggrapparsi quella figura che più distante dalla tradizione sindacale non si potrebbe avere, la Segretaria piddina Elly Schlein, aiutata però dal fatto di avere così poco da perdere che qualsiasi punto guadagni sembra un match-point, senza peraltro diventarlo sul serio.
Sia chiaro: non stiamo assistendo a uno scontro tra Titani. La storia recente – è tutta recente, peraltro – della Meloni ne descrive una capacità di slalom vivace e dialetticamente saggio, tra silenzi e assertività ben dosati, ma nel merito fotografa anche una carriera gestita tra reducismo, strofinamenti con i nostalgici, ammiccamenti con gli extraparlamentari, e opportunismi sistematici con il Gran Postdemocristiano che fu Silvio Berlusconi.
Dopo il tafazziano “che fai mi cacci” di Gianfranco Fini, la minimizzata destra italiana rotolata ai piedi della giovanissima Meloni non è mai più riuscita a dire “bah” sulle scelte di Forza Italia e Lega, i due partiti che oggi le sono comprimari, e quindi ne ha di fatto sottoscritto tutte le disastrose scelte. Per carità: scelte non più nocive di quelle degli altri, ma almeno altrettanto. Negli ultimi ventotto anni – direttamente o meno – la sinistra ha guidato il Paese per 17. Ricordiamocelo: dal ’94 al ’22, il Cavaliere ha fatto disastri per 9 anni (’94, 2001-2006, 2009-2011), il sinistra-centro dell’Ulivo per 8 (95-2000 + 2007-2008), per 2 il tecnico para-sinistro (Monti 2012-2013), per 4 anni il centrosinistra (Letta, Renzi e Gentiloni) e ancora – dopo l’anno dell’inclassificabile Sarchiapone del Conte 1 – per altri 3 anni i rosso-gialli del Conte 2.
Il ripassino ci vuole – 17 anni di malgoverno contro 9 – perché leggere oggi Maurizio Landini che invoca la lotta all’evasione non trasmette maggior credibilità che sentire un qualsiasi Fratello d’Italia invocare la libera concorrenza sul fronte dei balneari o dei tassisti.
Ma dov’erano, tutti questi, quando la sinistra cincischiava in strategie fallimentari sull’evasione e la destra amoreggiava con qualsiasi lobby purché portasse un voto o un finanziamento?
Nessuno è senza peccato, ma statisticamente men che mai la sinistra.
Ciò detto, però, bisogna prendere atto – anzi, meglio: segnalare! – che oggi la sinistra ha un jolly in mano, e ha ancora riflessi pavloviani sufficienti – meno ancora, contrazioni involontarie tipo rana di Galvani – per lasciarlo giocare all’unica forza para-partitica che le rimane, appunto la Cgil. Orgaicamente connessa al Pd ma distinta quanto basta per fingere di non essere la stessa cosa. Quella Cgil che per il 7 ottobre promette di riempire la piazza di manifestanti in una classica protesta preventiva, del genere che, paradossalmente, hanno spesso fatto la storia.
Anche qui facciamo un piccolo flashback. L’ultimo Segretario generale della Cgil degno della tradizione di Giuseppe Di Vittorio e di Luciano Lama, cioè Sergio Cofferati, aveva voluto la nascita della Nidil (1998) per rappresentare le “Nuove Identità di Lavoro”, che sfuggivano alla tutela dei contratti nazionali. Sono passati 25 anni da quel passo visionario, e nessun altro è seguito. Soprattutto i sindacati confederali si sono accontentati del calduccio degli oltre 270 contratti che hanno firmato e che inquadrano il 97% dei lavoratori dipendenti, lasciando sostanzialmente al loro destino i migranti degli altri 700 contratti firmicchiati dalle altre insignificanti sigle sindacali che però, dietro lo scudo di una rappresentanza prevista dalla Costituzione (e meno male) e mai normata seriamente da una legge, è diventata una specie di armata Brancaleone.
E dunque oggi Landini – e dietro di lui la Schlein – hanno ottimo gioco a chiedere, chiedere e chiedere, e la Meloni che per vincere le elezioni ha promesso – e soprattutto permesso che i suoi alleati promettessero! – mari e monti e oggi non ha i soldi per dare neanche stagni e collinette, sta finendo pian piano in un “cul de sac”, quello tipico di chi governa, che pendolaristicamente confina i vincitori di ieri nello scomodissimo ruolo di prossimi candidati alla sconfitta per manifesto mendacio.
Se la Rete – quel Leviatano che sta soffocando la democrazia in tutto il mondo, all’insegna del “l’ho letto su Internet!” e dei like sotto le corbellerie più estreme e meno argomentate – lasciasse qualche scintilla di buon senso all’elettorato italiano, del che si deve dubitare, un anticorpo logico e culturale potrebbe difenderci dal ripetere stanco del ciclo delle disillusoni. Oggi le rivendicazioni della sinistra dovrebbero riattivare in tutti noi il ricordo di quei 17 anni di malgoverno della medesima sinistra, con i suoi aggregati, durante i quali l’unica cosa fatta per il lavoro è stata liberalizzarlo con la legge Biagi, cioè fare una “cosa di destra”, semmai. E quindi semmai la Cgil sta facendo atto di contrizione: la stessa Nidil di Cofferati ricorda, nel “chi siamo” del suo sito di essere titolare del contratto del lavoro in somministrazione (ex interinale), “che dà diritti e tutele ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti delle Agenzie per il lavoro e che prestano la loro attività presso Aziende utilizzatrici”. Tutto vero, visto da destra; sostanzialmente precariato, a giudizio di Landini…
Ma d’altronde, la stessa memoria storica – se ne avessimo il vizio – ci farebbe presente da dove proviene la Meloni e il grosso dei suoi collaboratori politici, e quanti errori madornali abbia commesso a sua volta la destra di governo nel nostro Paese.
Altro che guerra tra Titani: si vedono solo nani, in campo.
Quindi, a guardarli dall’alto e da lontano – che è più igienico che avvicinandosi troppo – la brace che sta montando sotto la cenere ferragostana (meravigliosa, nell’intervista di Landini alla Stampa, quell’invettiva contro i classisti “resort” nei quali si sarebbe rifugiata la destra di governo, niente a confronto dell’armocromista della sua Segretaria!) è la solita antropofagia dei vincenti. Vincere e poi sconfiggersi da soli, per eccesso di pregresse promesse e per pasticcioneria di basso conio e bassissima competenza nella gestione quotidiana del potere. Di questo male è imploso il Conte 2, di questo male erano implosi i Governi dei tre margheritini Letta Renzi e Gentiloni. La Meloni ha ancora in mano i numeri – e un pochettino di originalità – per difendersi da questa sindrome. Ma non ha quattrini e il più delle volte o è sola o è male accompagnata.
Oggi che la Cgil chiede, in sostanza, di ripristinare una forma di scala mobile sotto altra definizione per difendere i salari dall’inflazione, ci vorrebbe qualcuno che avesse la statura e la credibilità per ricordarci che l’aggancio automatico dei questi a quella è illusorio, e che il potere d’acquisto degli stipendi si difende con la competitività, che significa lavorare di più e meglio, studiare di più, prepararsi di più, competere di più: in una parola, significa complicarsi la vita, non facilitarsela. Poi a fine mese ti arrivano più quattrini in busta paga, ma te li sei strasudati.
Sia chiaro: anche da noi arrivano, a molti, un po’ di soldi in più; ma solitamente fuori busta, e poi a molti, non a tutti. E dunque il Paese reale, che vive anche di una costituzione materiale costruita sul nero, sta meglio di quanto le statistiche rappresentino, ma gli italiani che non evadono e non delinquono – pur sempre tanti – oggi trovano ale loro spalle molto meno welfare ad accudirli. E non per l’abolizione del Reddito di cittadinanza: per l’abolizione del surplus di bilancio.
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