Chissà se il Governo di destra-centro avrà il coraggio e la capacità di violare uno dei tabù più protetti della storia repubblicana, cioè la rappresentatività presuntiva dei sindacati dei lavoratori. La domanda tornava inevitabilmente alla memoria di chi ha memoria e oltrepassa, nonostante la religione integralista della Rete, la soglia d’attenzione da pesce rosso che contraddistingue gli elettori 2.0. Guardando il video del Segretario generale della Cgil Maurizio Landini che parlava alla folla ieri dal palco di Monfalcone, e togliendo l’audio, si sprofondava nel consueto deja vù. Per cosa sarà stato così arrabbiato, stavolta?
Il Governo “di Giorgia” ha riaperto le assunzioni degli ispettori del lavoro, lo si aspettava da una decina d’anni. E l’esecrata abolizione del Eeddito di cittadinanza è coincisa – se non ha determinato – con un incremento dell’occupazione a tempo indeterminato che non si registrava da una decina d’anni, anzi dal “milione di posti di lavoro” promessi e non creati dal Cavaliere. E allora per cosa era arrabbiato ieri Landini? Ah già, per il salario minimo. Peccato, però, che gli oltre 900 contratti nazionali di categoria siano già tutti corredati da tabelle salariali che includono i minimi, e siano stati tutti firmati da Cgil, Cisl e Uil (ma la Cisl, poi bisogna parlarne, ha una posizione metodologicamente diversa, nello scacchiere della politica sindacale di oggi) e dunque o la Triplice ha firmato carte false o le imprese le disapplicano, ma nel primo caso Landini dovrebbe prendersela con se stesso e nel secondo promuovere il più ferreo controllo sociale nelle fabbriche e invocare le retate degli ispettori del lavoro che finalmente il governo di destra sta assumendo.
Fermi tutti, c’è qualcosa che non quadra. Intanto, dov’è andata la vecchia carsica polemica sulla rappresentanza? Quanti iscritti paganti hanno oggi Cgil, Cisl e Uil? E la Confsal? E l’Ugl? Chi rappresentano davvero?
E poi: il collateralismo reciproco tra Cgil e Pci prima poi Ds, Pds , Ds e oggi Pd… prosegue o è finito? Bella domanda. A giudicare dalle tattiche di questi giorni, sta nascendo un nuovo “campo largo” ibrido come un’automobile, o come un rospo. Che vede la Cgil amoreggiare con i Cinquestelle di Giuseppe Conte. Che non a caso proprio ieri ha annunciato, parlando a Piana degli Albanesi, dove ha partecipato alla commemorazione delle vittime della strage di Portella della Ginestra, che firmerà il referendum della Cgil contro il Jobs Act. Mentre una delegazione di Pd, M5S e Avs (Alleanza verdi-sinistra) ha depositato in Cassazione la proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione del salario minimo. Sul referendum contro il Jobs Act la Schlein ha ribadito la sua posizione “ben nota. Ai tempi del Jobs Act stavo in piazza con la Cgil. Non ho ancora visto i quesiti, ma ogni iniziativa del sindacato da noi è vista con interesse. Prevedo che moltissimi nel Pd daranno una mano”.
Dunque, riepiloghiamo: tra lotta al Jobs Act e battaglia per il salario minimo, un Pd smarrito quanto non mai e incapace di costruire un asse politico con i Cinquestelle cerca riparo sotto le bandiere della Cgil che palesemente risultano accoglienti anche per i pentastellati. Come dire che il campo largo potrebbe essere più sindacal-politico che politico sindacale.
In questo scenario, la marginalizzazione della Uil è palese, da comprimaria a portatrice d’acqua di una Cgil che ha riacquistato peso politico diretto. Diversa la posizione della Cisl, che metodologicamente negozia con qualsiasi Governo, convinta – giustamente, secondo chi scrive – che questo sia il ruolo del sindacato, dosando con grandissima parsimonia gli scioperi (che pesano nelle tasche dei lavoratori), la piazza e le iniziative antigovernative che non siano di indiscutibile necessità.
In effetti, il vero problema di quest’inedita nascente triplice alleanza sindacal-politica tra Landini, Schlein e Conte non è nell’essere troppo “di sinistra”, ma di esserlo all’antica e inefficacemente. Il Jobs Act ha ormai ampiamente dimostrato di non essere così utile come si sperava perché le politiche attive del lavoro stentano a decollare, ma neanche così lesivo dei diritti sociali come si temeva, perché non c’è stata in Italia alcuna epidemia di licenziamenti, né alcuna epidemia di lavori a termine, e anzi oggi l’aumento occupazionale che rompe le uova nel paniere di Landini è prevalentemente costituito da contratti a tempo indeterminato. Un vero problema è dunque innanzitutto la scarsa sicurezza sul lavoro, figlia dello scarso controllo del territorio, a sua volta addebitabile in parte alla carenza degli ispettorati e in parte alla debolezza dei sindacati; un altro vero problema è il fenomeno dei “lavoratori poveri” che non sono tali per mancanza di salario minimo, ma per insufficienza del monte salariale, qualcosa di ben più vasto e più grave, e per rigidità del modello contrattuale che ad esempio paga lo stesso a Crotone e a Mantova, dove le differenze di costo della vita sfiorano il 50%; un altro problema è la scarsissima qualità degli strumenti di incrocio tra domanda e offerta; e po c’è quello della collaborazione tra istituti formativi e aziende.
Ci sarebbero un sacco di cose serie da fare, ma il concentrarsi di Cgil, M5S e Pd su quei due cavalli di battaglia, salario minimo e Jobs Act, dimostra non solo la voglia di agitare bandiere rivoltose più che conseguire risultati concreti, a caccia dunque di riscosse politico-elettorali più che di vantaggi per i lavoratori; ma dimostra anche una cultura arcaica dei diritti sociali, obnubilata come si è la sinistra italiana sui soli diritti civili. Oggi bisogna pagare molto meglio chi lavora, e farlo partecipare agli utili, e imporre investimenti seri sulla sicurezza, sulla formazione, sul replacement. Ma sono concetti meno sbandierabili.
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